(Versione italiana sotto) On September 15, with a solemn ceremony, a radiant Donald Trump did the honors for an event the most of the journalists and commentators worldwide rushed to tag as “historic”. The location was indeed the one of the important events, the Garden of the Roses of the White House, which witnessed other high ranking delegations formerly at war shaking each other’s hands in peace. The level of the guests received on this occasion was not less elevated than in the past: the Prime Minister of Israel Benjamin Netanyahu and the Foreign Ministers of the UAE and Bahrain have signed agreements that normalize the relations among those countries ushering in the opening of diplomatic representations, commercial flights and cooperation in scientific, industrial and cultural sectors.
What at first strikes about the “Abraham
Agreements” is that the “normalization” concerns countries with which Israel
has no territorial disputes: in fact, they already fostered good unofficial
relations in sectors such as tourism and exchange of intelligence and military
information. As an evidence of that, we
haven’t witnessed long and strained negotiations and the declaration of intents
was a lean, short document. A peace without a (previous) war, which lies
outside the usual paradigms used by scholars and reporters to explain the
dynamics of the Middle Eastern politics in general and the Israel-Palestinian-Arab
conflict in particular. Is that a good sign? Is it a cunning operation of
Realpolitik by regional actors which get rid of the classical alliances schemes
and of the full-blown rhetoric on solidarity with the Palestinians?
What is true is that the Palestinians are indeed the only loosing part of this negotiation round. “A stub in the back” was even described by the spokesperson of the Palestinian authority. As a matter of fact, as already mentioned, these agreements mark a breach in the Arab stance. The Arab countries as a whole had always backed the Palestinian claim that any recognition of Israel would pass by an overall settlement with the Palestinian Authority over the status of the Territories occupied by Israel during the ’67 War. That was still the official pan-Arab position as stated in the last, general Arab Peace Plan sponsored by Saudi Arabia in 2002.
It is true that the Emirates have justified
their decision by claiming that they “convinced” the Israeli Prime Minister to
freeze the project of annexing the West Bank: however as Netanyahu put it, the
project is only in stand-by as it represents a priority for his government.
By claiming to have broken the Israeli
isolation among the Arab world (or at least in part of it) as a major
diplomatic success Mr. Netanyahu can undoubtedly mark a point in his favor,
given the troubled internal political situation, with an indictment for
corruption pending on him and with the chaos over the management of the
Covid-19 pandemic (being so far Israel the first country to experience a second
full lockdown).
For his part, President Donald Trump can also
sell the brokered agreements as a diplomatic achievement enshrined in his
personal negotiation skills that, as he puts it, he will use to herald even
further American success in the international arena, were he be reelected. If
it is true that historically the foreign policy has not had a preponderant weight
for a president seeking reelection, it is also true that by presenting himself
as a strenuous defender of Israel (by brokering an agreement that breaks the
latter diplomatic isolation) Mr. Trump bets on the Jewish and the Evangelic
votes (which are traditionally close to Israel).
As for the Gulf Countries it is interesting to
see how they will capitalize the “Abraham Agreements” and how the peculiar
strategic and military contingency has pushed UEA and Bahrain to turn their
backs to the Palestinian claims with the approval of Saudi Arabia. It is
undoubted that the agreements went through thanks to the approbation of the
Saudi Monarchy which backed down the past inflexibility towards Israel. If it
is unlikely tough that the King would openly recognize Israel and join in the
agreements, in the future, once Crown Prince Mohammad bin Salman will take over,
everything is possible.
Gli “Accordi di Abramo”: cui prodest?
In pompa magna, lo scorso
15 Settembre un raggiante Donald Trump faceva gli onori di casa per un evento
che stampa e commentatori di mezzo mondo si sono affrettati a definire
“storico”. La location era peraltro quella degli eventi importanti, il Giardino
delle Rose della Casa Bianca che in passato ha visto altri presidenti e altre
delegazioni di paesi precedentemente in guerra stringersi la mano. E in effetti
la statura degli ospiti convenuti in quest'occasione non è stata da meno che
nel passato: Benjamin Netanyahu, Primo ministro di Israele e i ministri degli
esteri di Bahrain e Emirati Arabi Uniti hanno firmato un accordo che normalizza
i rapporti tra questi paesi, con scambio di rappresentanze diplomatiche,
aperture di voli commerciali e cooperazione in ambito scientifico, industriale
e culturale.
A prima vista sembrerebbe
che un tale evento ricalchi effettivamente quelli degli accordi di Camp David,
del 1978 che posero fine alle ostilità tra Israele e Egitto e del 1994 tra
Israele e Giordania e prima ancora gli Interim agreement tra Israele e OLP. Se
non che ciò a cui il Presidente Donald Trump (e i suoi consiglieri Robert O’
Brien per la Sicurezza Nazionale e il genero Kushner per il Medio Oriente) ha
minuziosamente lavorato corrisponde a un paradigma profondamente diverso
rispetto ai binari della diplomazia americana e mediorientale che vincolavano
qualsivoglia accordo regionale con Israele- incluso il riconoscimento dei
vicini arabi- al principio di “terra in cambio di pace”. Tale è stato il
caso dei sopra citati accordi tra Begin e Sadat con la restituzione del Sinai
all'Egitto e gli accordi tra Rabin e re Hussein che hanno seguito i negoziati
con Arafat per la cessione dei Territori Palestinesi.
Ciò che a primo acchito colpisce di tale “normalizzazione” è che riguarda dei paesi con cui Israele non ha di fatto alcun contenzioso territoriale e con cui anzi nutre già buoni rapporti ufficiosi in diversi settori (dal turismo allo scambio di informazioni di intelligence e militari). A riprova di ciò, il mondo non ha assistito a lunghi round negoziali e il documento firmato è una “snella” dichiarazione di intenti. Una pace senza guerra insomma che esula dai consueti schemi epistemologici con cui studiosi e commentatori (ci) hanno abituato a leggere la politica mediorientale e il conflitto israelo-arabo-palestinese in particolare. E’ questo un bene? Una scaltra operazione di Realpolitik da parte di attori regionali stanchi delle pastoie diplomatiche e – da parte di Bahrein e EAU (per ora) della conclamata solidarietà panaraba verso i Palestinesi?
E’ vero che i
Palestinesi, ancora una volta, sono stati i “perdenti” diplomaticamente
parlando di tali accordi. Addirittura una “coltellata alla schiena” come l'ha
definita il portavoce del governo di Abbas. E in effetti, come si è già detto,
la firma tra i tre paesi segna una crepa importante nel blocco arabo che ha
strenuamente subordinato –almeno di facciata- ogni riconoscimento di Israele
alla pace con i palestinesi e alla restituzione dei territori occupati nella
guerra del ’67. Tale principio veniva ancora solennemente sancito dall’ultimo,
più importante piano di pace arabo voluto dall’Arabia Saudita nel 2002 e a cui
tutti i Paesi arabi hanno aderito.
E’ pur vero che gli Emirati hanno giustificato la loro apertura affermando di aver “convinto” Netanyahu a congelare il progetto di annessione della West Bank, ma come lo stesso Primo ministro israeliano si è affrettato a dichiarare il progetto è solo rinviato, essendo esso l'obiettivo primario, nel medio-lungo periodo, del governo israeliano.
Netanyahu segna senza
dubbio un punto diplomatico a proprio favore, rompendo l'isolamento diplomatico
nel mondo arabo (o di parte di esso) e puntando sulla politica estera rispetto
a una politica interna che al momento, tra il processo per corruzione e la
gestione critica dell'epidemia Covid (Israele è il primo paese al mondo a
imporre un secondo lockdown totale) non sembra fornirgli motivi per
rallegrarsi.
Pure Trump dal canto suo
può vantare un successo diplomatico sancendo quel suo “stile negoziale” tutto
particolare che, sotto elezioni con sondaggi a lui sfavorevoli gli permette di
annunciare ulteriori successi in campo internazionale. Se è vero che la
politica estera non ha storicamente un peso preponderante per un presidente
americano che cerca la rielezione è pur vero che, presentandosi come uno
strenuo difensore di Israele e contribuendo a romperne l'isolamento diplomatico
di parte del mondo arabo, Trump punta sull’importante fetta del voto
ebraico e su quello evangelico, tradizionalmente amico di Israele.
Quanto ai Paesi del Golfo
è interessante notare quanto capitalizzeranno dall'accordo con Israele e come
la particolare congiuntura strategico/militare abbia spinto (sempre complice
l’amministrazione Trump) a far cadere i vecchi tabù che legavano i Paesi arabi
alla causa palestinese e all’ostilità verso lo stato ebraico, con il tacito
avallo dell’Arabia Saudita. Sembra infatti che Ryad –senza la cui
autorizzazione difficilmente il Bahrain e gli stessi Emirati avrebbero potuto
intraprendere un passo simile- stia facendo macchina indietro rispetto
all’intransigenza mostrata verso Israele, e se è improbabile che l'attuale
sovrano si spinga fino ad un accordo formale con lo Stato ebraico (come
ventilato più o meno chiaramente da Washington) con il futuro monarca Mohammad
bin Salman tutto sarà possibile.
Certo, il gioco vale la
candela. Al di là della retorica messa in campo dai diversi Paesi (a partire
dal nome degli accordi che, in uno sforzo ecumenico, rimanda al Patriarca
riconosciuto dalle tre grandi religioni: Abramo appunto) i quali, che che se ne
dica, hanno difficoltà a far accettare alla propria popolazione la
normalizzazione con Israele (il che è particolarmente vero per il Bahrain la
cui helite sunnita ha e ha avuto grosse difficoltà a governare una maggioranza
sciita) la posta in gioco è ben altra che le sole apertura al turismo e alla
cooperazione scientifica. Si tratta infatti di ufficializzare quel fronte
comune che oppone il mondo sunnita – a guida Saudita- e Israele alla comune
minaccia iraniana. Con gli attacchi alle raffinerie saudite da parte di
droni yemeniti –ma con la regia iraniana, secondo Ryad- e con il clima da
guerra fredda (che spesso, come abbiamo visto, deflagra in atti di proxy-war)
che si vive tra le due sponde del Golfo, ogni aiuto anti-iraniano è ben accetto
dalle petrol-monarchie. Finalmente la congiuntura favorevole si è avuta con
l'arrivo di Donald Trump alla Casa bianca il quale si è affrettato a stralciare
l’accordo sul nucleare voluto dal suo predecessore lanciando un segnale che le
capitali del Golfo hanno subito colto: e se questo significava, come nel
disegno di Kushner e Trump stesso- e come auspicato da Netanyahu- di
passare attraverso un riconoscimento di Israele, ben venga. In cambio gli
Emirati Arabi avranno sbloccate le commesse per i tanto agognati F-35
invisibili ai droni e i Boeing E/A-18G Growler segnando un vantaggio strategico
nell’equilibrio militare con Teheran. Venti di guerra quindi che, in chiave
anti-iraniana, vedono un inedito asse Washington-Tel Aviv-Abu Dhabi.
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