giovedì 12 dicembre 2019

The Ayatollah and Iraq...a déjà vu story?


   


   The violent protests that have been flaring up Iraq for over two months brought about the resignation of Prime Minister Abdel Abdul Mahdi, as sources of the government leaked on November 29th. Interestingly enough, it was not the heavy-handed police response (leaving on the ground more than 400 protesters), nor the pressures from the International Community that caused the PM to step down. What it actually resulted decisive was the official standpoint taken by top Shia Iraqi Authority, Ayatollah Aly Al-Systani condemning the crackdown.

    The riots started in the early October and targeted a ruling class conceived as too corrupted, unable to cope with the rising unemployment rate affecting mainly young people ( in Iraq 60% of the population is under 30). So far the protests have been essentially spontaneous, without a defined lairdship and mainly animated by young people.



    This is up to now. As in the intricate Middle Eastern scenario and specifically in the complicated ethnic and religious mosaic that is Iraq, the gaps of power are particularly quick to be re-filled. The majority of the population in Iraq is Shi’ite and during the ruling of the Sunni Saddam Hussein the gap between Shia majority and the Sunni minority went on more and more widening. In this sense it was of little help the post-Saddam quota-based system attributing key government roles equally to Shia, Sunny and Curds, the three main sectarian and ethnical groups of Iraq.

    Today’s risk in Iraq is that the Shia clergy could take advantage of the lack of leadership during these two month unrests. From Karbala, the Shi’ite holy city in Iraq, Ayatollah Al- Systani presents himself as the guide, both political and spiritual, of a population exacerbated by years of instability, misery and warships. For decades, at least since the Ba’at revolution in the 60s, the religious Shia authorities were relegated to mosques and Madrasas, but today they present themselves  as the political alternative to look upon for a wide population disenchanted by the collapsing republican institutions. And indeed the political situation may justify a daring comparison of today’s Iraq to the 1979-Iran: back then, the anti-Shah protests too were inspired by progressive demands against a corrupted government perceived as driven by external interests. Ayatollah Ali Khomeini, initially declared himself unwilling to lead the protest movements just to oust any other democratic force upon his return to the country.



    The present political situation in Iraq shows some aspects that appear ripe for a populist-theological discourse to be grasped: the protests still do not have a clear ideological motive nor a leadership with which the Shi’ite clergy could compete for; the Iraqi civil society is today much more fragile than the one in Iran in the late 70s and therefore less resilient to the cajolery of the religious lure. Let alone the growing influence exercised by Iran in all the Middle East...  And still, this last point can help debunking a too simplistic comparison between the two countries. The influence of Iran, perceived as too pervasive in the Iraqi politics, was one of the reasons pushing people to take the street. Moreover, the complex confessional and ethnical composition of Iraq does not seem to encourage a potential hegemonic experience by the Shi’a: that, if ever happened, would not be able to take over the pride Sunni population without sparking further conflict eligible to enlarge, once more, at the regional and international level.

    The 2011 “Arab Springs” that gave the hope for a democratic reshaping of the entire Middle East, mostly turned into more excruciating conflicts and authoritarian regimes (with important exceptions like in Tunisia)...The peculiar history of Iraq, its demographic composition and the ethnic and religious divides do not seem to encourage for a controlled and peaceful resolution of the today’s unrests. Will we assist to a resurgence of the religious and ethnical contend as a consequence of the demands for a renovated and more democratic political system? Or should be assisting to a further fragmentation of the Iraqi polity, under the pressure of the internal and the external interests? The upcoming months will be decisive to understanding the evolution of the crisis as well as to grasp once and for all which role the Shia authorities will assume.




lunedì 2 dicembre 2019

L'Ayatollah e l'Iraq...Una storia già vista?



Le violente proteste che da circa due mesi infiammano l’Iraq stanno portando alle dimissioni del Premier, Adel Abdul Mahdi, come fonti del governo hanno fatto sapere questo venerdì 29 Novembre. Curiosamente, non è stata tanto la sanguinosa repressione della polizia- repressione che ha lasciato sul terreno oltre 400 morti tra i manifestanti-, né le pressioni della comunità internazionale che per voce del Segretario delle Nazioni  Unite Gutierrez hanno invocato l’immediata cessazione dell’uso della forza, a determinare tale esito. La mossa decisiva che ha convinto il Primo Ministro a fare un passo indietro viene invece dalla massima autorità sciita del paese, l’Ayatollah Aly Al-Systani.

Le proteste di piazza hanno preso l’avvio a inizio ottobre, in una sorta di riedizione delle “Primavere Arabe” contro una classe dirigente percepita come troppo corrotta, incapace di affrontare la galoppante inflazione e la drammatica disoccupazione soprattutto giovanile, in un paese dove il 60% della popolazione ha meno di 30 anni. Le proteste sono state pressoché spontanee, animate prevalentemente da giovani, senza una leadership unitaria ed identificabile.


Questo fino ad ora. Ma nelle intricate dinamiche mediorientali e nel difficile mosaico etnico e religioso dell’Iraq i vuoti di potere sono particolarmente veloci ad essere riempiti. L’Iraq è un Paese a maggioranza sciita che per decenni, sotto la dittatura del sunnita Saddam Hussein, ha visto allargarsi sempre di più un inconciliabile divario tra la maggioranza, insofferente del leader iracheno e la minoranza sunnita. Né è servita a molto la suddivisione dei ruoli chiavi nel governo tra Sciiti, Sunniti e Curdi dopo la caduta di Saddam.

Il rischio oggi è che sia proprio il “clero” sciita a rappresentare quel catalizzatore delle rivendicazioni sociali e politiche che non hanno avuto leadership in questi due mesi di proteste, specie dopo il trauma dell’IS a monopolio sunnita. Da Karbala, la Città Santa sciita del Paese, l’Ayatollah al Al-Systani di fatto si candida a guida, fin’ora solo spirituale, di una popolazione esasperata da anni di instabilità, miseria e guerra. Anni che fin della rivoluzione Ba’at negli anni ‘60 hanno visto forzosamente relegato il ruolo dei religiosi sciiti all'interno delle moschee e delle madrase e che oggi potrebbe rappresentarsi come un modello “valido” per una maggioranza disillusa delle istituzioni repubblicane. E in effetti il contesto politico dell’Iraq di oggi e dell’Iran del ‘79 potrebbe indurre a una facile similitudine nei destini dei due paesi:  anche nell'Iran pre-Komeinista le proteste anti-scia’ apparivano inizialmente in chiave “progressista” contro un sistema politico corrotto e prono ad interessi esterni. Di lì a poco l’Ayatollah Komeini, che dichiarava di non voler assumersi la leadership delle proteste tornò in Patria e progressivamente esautorò ogni altra forza “democratica”.


L’attuale contesto socio-economico dell’Iraq è per certi versi più “semplice” di quello iraniano di allora perché un discorso populistico-teocratico in chiave sciita possa attecchire: le proteste dell’Iraq di oggi non hanno una chiara matrice ideologica né una leadership con cui il clero sciita possa competere; la società civile irachena è decisamente meno compatta di quella dell’Iran degli anni ‘70 ed esce martoriata da anni di sanguinosi conflitti. Senza contare che al di là dell’aspetto religioso, l’Iran di oggi esercita un’influenza in tutto il Medio Oriente in maniera molto più efficace e diretta che in passato...E però proprio in questo punto sta forse la prima contro-prova di una presunta linearità tra il “caso iraniano” e il “caso iracheno”.  
Proprio la presenza iraniana, percepita come un’influenza straniera preponderante è stata una delle cause che hanno spinto la popolazione irachena in strada: non a caso edifici governativi e sedi di rappresentanza iraniani sono stati oggetto di attacco della folla e slogan contro l’Iran, accusato di interferire pesantemente negli affari interni iracheni sono stati scanditi. Inoltre, la particolare composizione demografica ed etnica del “Paese dei due Fiumi” non appare facilitare un’eventuale esperienza egemonica sciita: questa -ove mai si realizzasse- non riuscirebbe a tenere sotto controllo la componente sunnita senza ulteriori traumatici conflitti che rischierebbero di espandersi pericolosamente, ancora una volta, a livello regionale ed internazionale.


Purtroppo le “Primavere Arabe” che nel 2011 hanno lasciato sperare a una rinascita democratica nel mondo arabo, tranne che per rarissime eccezione (vedi la Tunisia) si sono in realtà tradotte in estenuanti conflitti intestini o in regimi ancora più dittatoriali dei precedenti...La particolare composizione etnica e religiosa, nonché la tormentata storia del Paese e le rivendicazioni indipendentiste dei Curdi del nord (che di fatto godono già di un’ampia autonomia) non sembrano incoraggiare un esito controllato e una risoluzione politica della crisi di governance di cui soffre l’Iraq oggi. Assisteremo a un riemergere nel Paese delle spinte confessionali e religiose come “riflusso” alle rivendicazioni di rinnovamento delle classe dirigenti o a un ulteriore sgretolarsi della polity irachena sotto la spinta interna dei vari gruppi etnici ed esterna degli attori regionali? Quel che è certo è che i prossimi mesi saranno decisivi per comprendere l’evolversi della crisi istituzionale irachena così come per chiarire una volta per tutte quale ruolo vorrà ritagliarsi l’autorità religiosa sciita.