lunedì 2 dicembre 2019

L'Ayatollah e l'Iraq...Una storia già vista?



Le violente proteste che da circa due mesi infiammano l’Iraq stanno portando alle dimissioni del Premier, Adel Abdul Mahdi, come fonti del governo hanno fatto sapere questo venerdì 29 Novembre. Curiosamente, non è stata tanto la sanguinosa repressione della polizia- repressione che ha lasciato sul terreno oltre 400 morti tra i manifestanti-, né le pressioni della comunità internazionale che per voce del Segretario delle Nazioni  Unite Gutierrez hanno invocato l’immediata cessazione dell’uso della forza, a determinare tale esito. La mossa decisiva che ha convinto il Primo Ministro a fare un passo indietro viene invece dalla massima autorità sciita del paese, l’Ayatollah Aly Al-Systani.

Le proteste di piazza hanno preso l’avvio a inizio ottobre, in una sorta di riedizione delle “Primavere Arabe” contro una classe dirigente percepita come troppo corrotta, incapace di affrontare la galoppante inflazione e la drammatica disoccupazione soprattutto giovanile, in un paese dove il 60% della popolazione ha meno di 30 anni. Le proteste sono state pressoché spontanee, animate prevalentemente da giovani, senza una leadership unitaria ed identificabile.


Questo fino ad ora. Ma nelle intricate dinamiche mediorientali e nel difficile mosaico etnico e religioso dell’Iraq i vuoti di potere sono particolarmente veloci ad essere riempiti. L’Iraq è un Paese a maggioranza sciita che per decenni, sotto la dittatura del sunnita Saddam Hussein, ha visto allargarsi sempre di più un inconciliabile divario tra la maggioranza, insofferente del leader iracheno e la minoranza sunnita. Né è servita a molto la suddivisione dei ruoli chiavi nel governo tra Sciiti, Sunniti e Curdi dopo la caduta di Saddam.

Il rischio oggi è che sia proprio il “clero” sciita a rappresentare quel catalizzatore delle rivendicazioni sociali e politiche che non hanno avuto leadership in questi due mesi di proteste, specie dopo il trauma dell’IS a monopolio sunnita. Da Karbala, la Città Santa sciita del Paese, l’Ayatollah al Al-Systani di fatto si candida a guida, fin’ora solo spirituale, di una popolazione esasperata da anni di instabilità, miseria e guerra. Anni che fin della rivoluzione Ba’at negli anni ‘60 hanno visto forzosamente relegato il ruolo dei religiosi sciiti all'interno delle moschee e delle madrase e che oggi potrebbe rappresentarsi come un modello “valido” per una maggioranza disillusa delle istituzioni repubblicane. E in effetti il contesto politico dell’Iraq di oggi e dell’Iran del ‘79 potrebbe indurre a una facile similitudine nei destini dei due paesi:  anche nell'Iran pre-Komeinista le proteste anti-scia’ apparivano inizialmente in chiave “progressista” contro un sistema politico corrotto e prono ad interessi esterni. Di lì a poco l’Ayatollah Komeini, che dichiarava di non voler assumersi la leadership delle proteste tornò in Patria e progressivamente esautorò ogni altra forza “democratica”.


L’attuale contesto socio-economico dell’Iraq è per certi versi più “semplice” di quello iraniano di allora perché un discorso populistico-teocratico in chiave sciita possa attecchire: le proteste dell’Iraq di oggi non hanno una chiara matrice ideologica né una leadership con cui il clero sciita possa competere; la società civile irachena è decisamente meno compatta di quella dell’Iran degli anni ‘70 ed esce martoriata da anni di sanguinosi conflitti. Senza contare che al di là dell’aspetto religioso, l’Iran di oggi esercita un’influenza in tutto il Medio Oriente in maniera molto più efficace e diretta che in passato...E però proprio in questo punto sta forse la prima contro-prova di una presunta linearità tra il “caso iraniano” e il “caso iracheno”.  
Proprio la presenza iraniana, percepita come un’influenza straniera preponderante è stata una delle cause che hanno spinto la popolazione irachena in strada: non a caso edifici governativi e sedi di rappresentanza iraniani sono stati oggetto di attacco della folla e slogan contro l’Iran, accusato di interferire pesantemente negli affari interni iracheni sono stati scanditi. Inoltre, la particolare composizione demografica ed etnica del “Paese dei due Fiumi” non appare facilitare un’eventuale esperienza egemonica sciita: questa -ove mai si realizzasse- non riuscirebbe a tenere sotto controllo la componente sunnita senza ulteriori traumatici conflitti che rischierebbero di espandersi pericolosamente, ancora una volta, a livello regionale ed internazionale.


Purtroppo le “Primavere Arabe” che nel 2011 hanno lasciato sperare a una rinascita democratica nel mondo arabo, tranne che per rarissime eccezione (vedi la Tunisia) si sono in realtà tradotte in estenuanti conflitti intestini o in regimi ancora più dittatoriali dei precedenti...La particolare composizione etnica e religiosa, nonché la tormentata storia del Paese e le rivendicazioni indipendentiste dei Curdi del nord (che di fatto godono già di un’ampia autonomia) non sembrano incoraggiare un esito controllato e una risoluzione politica della crisi di governance di cui soffre l’Iraq oggi. Assisteremo a un riemergere nel Paese delle spinte confessionali e religiose come “riflusso” alle rivendicazioni di rinnovamento delle classe dirigenti o a un ulteriore sgretolarsi della polity irachena sotto la spinta interna dei vari gruppi etnici ed esterna degli attori regionali? Quel che è certo è che i prossimi mesi saranno decisivi per comprendere l’evolversi della crisi istituzionale irachena così come per chiarire una volta per tutte quale ruolo vorrà ritagliarsi l’autorità religiosa sciita.  

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