Le violente proteste che da circa due mesi infiammano l’Iraq stanno
portando alle dimissioni del Premier, Adel Abdul Mahdi, come fonti del governo
hanno fatto sapere questo venerdì 29 Novembre. Curiosamente, non è stata tanto
la sanguinosa repressione della polizia- repressione che ha lasciato sul
terreno oltre 400 morti tra i manifestanti-, né le pressioni della comunità
internazionale che per voce del Segretario delle Nazioni Unite Gutierrez
hanno invocato l’immediata cessazione dell’uso della forza, a determinare tale
esito. La mossa decisiva che ha convinto il Primo Ministro a fare un passo
indietro viene invece dalla massima autorità sciita del paese, l’Ayatollah Aly
Al-Systani.
Le proteste di piazza hanno preso l’avvio a inizio ottobre, in una sorta di
riedizione delle “Primavere Arabe” contro una classe dirigente percepita come
troppo corrotta, incapace di affrontare la galoppante inflazione e la
drammatica disoccupazione soprattutto giovanile, in un paese dove il 60% della
popolazione ha meno di 30 anni. Le proteste sono state pressoché spontanee,
animate prevalentemente da giovani, senza una leadership unitaria ed
identificabile.
Questo fino ad ora. Ma nelle intricate dinamiche mediorientali e nel
difficile mosaico etnico e religioso dell’Iraq i vuoti di potere sono
particolarmente veloci ad essere riempiti. L’Iraq è un Paese a maggioranza
sciita che per decenni, sotto la dittatura del sunnita Saddam Hussein, ha visto
allargarsi sempre di più un inconciliabile divario tra la maggioranza,
insofferente del leader iracheno e la minoranza sunnita. Né è servita a molto
la suddivisione dei ruoli chiavi nel governo tra Sciiti, Sunniti e Curdi dopo
la caduta di Saddam.
Il rischio oggi è che sia proprio il “clero” sciita a rappresentare quel
catalizzatore delle rivendicazioni sociali e politiche che non hanno avuto
leadership in questi due mesi di proteste, specie dopo il trauma dell’IS a
monopolio sunnita. Da Karbala, la Città Santa sciita del Paese, l’Ayatollah al
Al-Systani di fatto si candida a guida, fin’ora solo spirituale, di una
popolazione esasperata da anni di instabilità, miseria e guerra. Anni che fin
della rivoluzione Ba’at negli anni ‘60 hanno visto forzosamente relegato il
ruolo dei religiosi sciiti all'interno delle moschee e delle madrase e che oggi
potrebbe rappresentarsi come un modello “valido” per una maggioranza disillusa
delle istituzioni repubblicane. E in effetti il contesto politico dell’Iraq di
oggi e dell’Iran del ‘79 potrebbe indurre a una facile similitudine nei destini
dei due paesi: anche nell'Iran pre-Komeinista le proteste anti-scia’
apparivano inizialmente in chiave “progressista” contro un sistema politico
corrotto e prono ad interessi esterni. Di lì a poco l’Ayatollah Komeini, che
dichiarava di non voler assumersi la leadership delle proteste tornò in Patria
e progressivamente esautorò ogni altra forza “democratica”.
L’attuale contesto socio-economico dell’Iraq è per certi versi più
“semplice” di quello iraniano di allora perché un discorso populistico-teocratico
in chiave sciita possa attecchire: le proteste dell’Iraq di oggi non hanno una
chiara matrice ideologica né una leadership con cui il clero sciita possa
competere; la società civile irachena è decisamente meno compatta di quella
dell’Iran degli anni ‘70 ed esce martoriata da anni di sanguinosi conflitti.
Senza contare che al di là dell’aspetto religioso, l’Iran di oggi esercita
un’influenza in tutto il Medio Oriente in maniera molto più efficace e diretta
che in passato...E però proprio in questo punto sta forse la prima contro-prova
di una presunta linearità tra il “caso iraniano” e il “caso iracheno”.
Proprio la presenza iraniana, percepita come un’influenza straniera
preponderante è stata una delle cause che hanno spinto la popolazione irachena
in strada: non a caso edifici governativi e sedi di rappresentanza iraniani
sono stati oggetto di attacco della folla e slogan contro l’Iran, accusato di
interferire pesantemente negli affari interni iracheni sono stati scanditi.
Inoltre, la particolare composizione demografica ed etnica del “Paese dei due
Fiumi” non appare facilitare un’eventuale esperienza egemonica sciita: questa
-ove mai si realizzasse- non riuscirebbe a tenere sotto controllo la componente
sunnita senza ulteriori traumatici conflitti che rischierebbero di espandersi
pericolosamente, ancora una volta, a livello regionale ed internazionale.
Purtroppo le “Primavere Arabe” che nel 2011 hanno lasciato sperare a una rinascita
democratica nel mondo arabo, tranne che per rarissime eccezione (vedi la Tunisia)
si sono in realtà tradotte in estenuanti conflitti intestini o in regimi ancora
più dittatoriali dei precedenti...La particolare composizione etnica e
religiosa, nonché la tormentata storia del Paese e le rivendicazioni
indipendentiste dei Curdi del nord (che di fatto godono già di un’ampia
autonomia) non sembrano incoraggiare un esito controllato e una risoluzione
politica della crisi di governance di cui soffre l’Iraq oggi. Assisteremo a un
riemergere nel Paese delle spinte confessionali e religiose come “riflusso”
alle rivendicazioni di rinnovamento delle classe dirigenti o a un ulteriore
sgretolarsi della polity irachena sotto la spinta interna dei vari gruppi
etnici ed esterna degli attori regionali? Quel che è certo è che i prossimi
mesi saranno decisivi per comprendere l’evolversi della crisi istituzionale
irachena così come per chiarire una volta per tutte quale ruolo vorrà
ritagliarsi l’autorità religiosa sciita.
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