venerdì 16 dicembre 2016

INTERVISTA AD ANGELO PEZZANA: UNA VITA DI POLITICA, PASSIONE E IMPEGNO CIVILE






Angelo Pezzana mi accoglie nel suo appartamento proprio sopra la storica libreria “Luxemburg” nel cuore di Torino. Già fuori dalla porta, lo zerbino con una scritta in ebraico (“benvenuti”) introduce gli ospiti a una delle grandi passioni di Angelo, quella per Israele.  E in effetti, una volta entrati, si resta affascinati dalle testimonianze, artistiche e icastiche, di una vita che, tra affetti e cultura, militanza e viaggi, libri e riconoscimenti, è tutta percorsa sul doppio binario della militanza per la causa LGBTI e quella per Israele.
Angelo mi mette subito a mio agio e quasi dimentico di confrontarmi con un pilastro della cultura italiana, l’antesignano della lotta per i diritti civili a cui le associazioni e i movimenti LGBTI in Italia devono molto.

Angelo, parliamo dei primissimi anni di attività, quella della tua libreria (La Luxemburg, ndr) e poi di quelli immediatamente successivi, della presa di coscienza –personale e collettiva- e della voglia di impegnarsi. Erano anni di grande movimento, quelli della fine degli anni ’60, di passioni e rivoluzioni…
In effetti io sono cresciuto in quel contesto culturale. Chi mi ha aperto a una visione del futuro è stata Fernanda Pivano, quando ha scritto la prefazione di Jubox all’Idrogeno, di Allen Ginsberg . Quando l’ho letta ho capito che la cultura della quale facevo parte era niente rispetto alla mia vita vera, e anche grazie alle serate passate a Milano con lei –anzi con la Nanda come la chiamavamo- ho capito che la mia strada era quella. Poi ho anche capito di non avere alcun problema a dichiararmi omosessuale… Oltretutto avevo una libreria internazionale, aperta nel ’63, dove c’era di tutto, anche letteratura gay americana. Da lì ho anche capito che dovevo fare qualche cosa per contribuire a cambiare la società. Non è vero che per essere liberi basta fregarsene del prossimo… no, si vive in una società che è organizzata in un certo modo e quindi devi o inserirti  - rinunciando a te stesso- o cercare di cambiare almeno un po’ il contesto in modo che tu possa essere te stesso, insieme agli altri.

Quando penso a quel periodo che non ho vissuto, ma imparato dai libri e dai film, mi immagino una mentalità gay in cui si fosse fieri di una propria unicità proprio perché non ci si conformava ai canoni “borghesi”. Noi abbiamo “la fortuna” di essere gay, di non poterci sposare, di non avere figli insomma di poter rivendicare un’identità quasi “rivoluzionaria”-si sentiva dire allora. Oggi mi sembra che non ci sia traccia di tutto ciò, anzi si mira ad avere tutto quello contro cui prima si combatteva…Erano quindi solo degli alibi quei vecchi slogan?
Ti faccio un esempio che riguarda il linguaggio. Se devo raccontare una storia che riguarda la guerra civile americana devo parlare di “bianchi” e “negri”, non c’era il termine “afro-americano”. Magari premetto che non lo userei mai oggi. Allora concetti come LGBTI, l’orgoglio gay… dimentica tutto questo: noi eravamo ancora alle parole “pederasta”, “invertito”…i più colti usavano il termine omosessuale, qualcuno diceva “frocio” da quando la parola era cominciata a circolare in qualche film, romanzo, (con Pasolini cominciò a diffondersi). Non avevamo alcuna dignità personale, a partire dalla lingua. I “gay”erano quelli americani. La prima rivista americana che io ho visto era “Gay Sunshine” quella che aveva già capito l’importanza del Movimento alla quale ho anche collaborato.

Immagino che tra gli stessi omosessuali allora non ci fosse una condivisione o un appoggio unanime nel creare un Movimento omosessuale.
Tutt’altro. C’erano gli omosessuali che ci dicevano “siete pazzi?! Volete fare un movimento?! Non siamo mai stati così bene, guardate indietro cosa c’era prima...”In parte era anche una questione generazionale, noi avevamo 25/30 anni, loro ne avevano 50/60. Una “sindrome da prigioniero”, una prigione dove tu affittavi un alloggio, non ti dovevi dichiarare, ma vivevi nascosto. Per incontrare un’altra persona o avevi una faccia tosta incredibile o ti nascondevi nei cinema, nelle ultime file, nei gabinetti pubblici, nei giardinetti la sera. Un contesto in cui ti sentivi un “fuori-legge”, ma non perché ci fosse una legge contro: era la società che non ti permetteva di essere te stesso. Allora, per prendere coscienza di tutto questo la letteratura veniva in aiuto: nei primissimi anni 60 c’era Marcuse, c’era Laing contro le strutture che opprimevano (la famiglia, la società…). In effetti, alla maggior parte dei genitori, anche quelli bravi, tu non glielo dicevi... Mio padre è morto che io avevo 25 anni quindi non abbiamo potuto fare discorsi “da adulti”… con mia madre è stato diverso, capì come vivevo e come volevo viere. Vivevamo in una casa dove lei era al secondo piano e io in mansarda e dove ho vissuto 5 anni con il compagno senza che lei notasse nulla. Semplicemente non erano discorsi che si affrontavano…

Quindi in Italia non c’era alcun movimento omosessuale. Com’è nato il F.U.O.R.I.!?
No, il movimento omosessuale è nato nel ‘71 e l’occasione è stata questa lettera-recensione fatta da uno psichiatra, che oltre tutto era un mio cliente, una persona mite: Feltrinelli aveva fatto una collana che si chiamava “franchi narratori” e i primi tre volumi erano, per i tempi davvero rivoluzionari. Uno era il diario di uno psichiatra che raccontava di un suo paziente omosessuale da lui “curato” e alla fine era “diventato” etero … Allora, un argomento come l’omosessualità, in un libro curato da un grande editore come Feltrinelli era qualcosa di impensabile. Io ero molto amico di Feltrinelli -era convinto in buona fede che far parlare di queste cose, non importava come e quando, fosse importante. Io ho letto quel libro –tra l’altro ero e sono tutt’ora amico del  protagonista, la cui famiglia aveva obbligato ad andare da uno psichiatra. Questo farabutto aveva registrato le sedute senza il permesso del paziente, che però, non potendo venire allo scoperto, non osò ribellarsi. Allora io scrissi una lettera a la Stampa dove criticavo non tanto l’autore quanto il titolo che era “L’infelice che ama la propria immagine”: quando ho letto quel titolo non ci ho più visto… la lettera era firmata anche dai miei amici e scrissi che era ora di finirla con queste dimostrazioni di ignoranza, culturale e scientifica. Non mi rispose il direttore, ma il segretario di direzione, dicendo che di questo argomento se ne parlava già fin troppo e quindi, non pubblicando la lettera, si era deciso di non dare adito “alla polemica che invece lei vorrebbe alimentare”. Mezz’ora dopo avevo già telefonato a una ventina di amici, gay e non gay, dicendo che dovevamo vederci  e fondare il movimento di liberazione omosessuale. La sera stessa a casa mia abbiamo fatto la prima riunione. Era l’Aprile del 1971 abbiamo cominciato. Per il nome, ognuno ha detto la propria, ci siamo riuniti a casa mia per decidere. Alla fine, ispirati dagli slogan americani e dai termini veicolati dalle riviste, in cui si parlava di coming out (“uscire fuori”) abbiamo optato per FUORI. La parola è piaciuta subito a tutti, però coming out ha un significato specifico che vuol dire: “uscire fuori dall’armadio”, “dichiararsi” mentre in italiano vuol dire anche “per la strada”“fuori di per sé”. Allora abbiamo pensato a delle parole che si attaccassero alle singole lettere, a mo’ di acronimo: F era Fronte, U era Unitario (ammetto che essendo solo  noi, faceva un po’ ridere, però…) O è omosessuale. R non si sapeva bene. Poi a un ragazzo di Milano- che per altro dopo quella riunione non si è quasi più visto- è venuta l’idea di chiamarlo “Rivoluzionario”. Per quanto l’idea non fosse che si facesse la “Rivoluzione” , però a ben pensaci, si trattava senz’altro di una rivoluzione culturale, nel costume. Quindi nacque F.U.O.R.I., coi  puntini; non col punto esclamativo che è nato molto dopo.


Dove vi riunivate?
Fino al 1974 non esisteva una sede fissa: ci riuniva a turno nelle case degli amici. Poi nel ’74 è diventata ufficiale la federazione del F.U.O.R.I.! col  Partito Radicale, che è stata per noi una scelta naturale. Un gruppo di noi aveva già partecipato al congresso del P.R. del ’72. Allora lo slogan era “ O mille iscritti o chiudiamo” e noi siamo andati a vedere, ci siamo sentiti subito a casa e abbiamo fondato una  radio -Radio Radicale che è nata a Torino- e nel ‘74 con la federazione ufficiale del F.U.O.R.I.! col P.R. abbiamo avuto come sede quella radicale, in via Garibaldi 13.

Tornando a F.U.O.R.I.! quanti eravate e quale era l’agenda?
Noi abbiamo cominciato che eravamo una ventina qui a Torino. Nel Dicembre del ’71 è uscito il numero 0 del Fuori!: 1000 copie che ci siamo divisi e, ci siamo messi a girare per l’Italia, le abbiamo distribuite dei programmi di viaggio, subito nel dicembre del ‘71, le abbiamo distribuite, chi a Milano chi a Bologna chi a Firenze…a Pordenone con Italo Corai e a Palermo con Giuseppe Di Salvo. Andavamo nei posti dove si “batteva” come si diceva una volta, negli incontri all’aperto per spiegare agli altri gay cosa stavamo facendo. Di solito la risposta era quasi infastidita (“ma che ci frega, ma dai, ci rovini la serata”). Per circa 10 giorni abbiamo girato buona parte d’Italia e a chi si dimostrava interessato chiedevamo se se la sentiva di riunire i propri amici e creare nelle diverse città un gruppo  F.U.O.R.I.! E’ così che nell’arco di due settimane ci siamo trasformati in un movimento nazionale con le sedi nelle case dei militanti. Da lì abbiamo subito cominciato a organizzare congressi nazionali.

Qual era l’agenda di fuori?
L’agenda era la visibilità e tale è rimasta fino ai primi anni ‘90. Ancora alla fine degli anni ’80 molti gay non si dichiaravano. Noi avevamo adottato la pratica dell’autocoscienza mutuandola dal movimento delle donne: ci riunivamo nelle nostre sedi e ognuno raccontava il proprio vissuto con molta sincerità per liberarsi da un peso che tenevamo dentro. Una pratica di liberazione utilissima perché il risultato era la visibilità tra noi in primis e poi si rifletteva nel bisogno di farla diventare pubblica.

Facevate letture, reading?
La parte culturale vera e propria è nata successivamente con la fondazione FUORI nell’80 dove abbiamo cominciato a sviluppare iniziative prettamente culturali. Ma prima ancora eravamo un gruppo che si riuniva per raccontare le proprie esperienze, le più disparate, dai problemi sul posto di lavoro al rapporto con i genitori…..

Vi ponevate la questione di influire sulla politica?
Certo, noi chiedevamo di parlare nelle scuole, cosa difficilissima allora… adesso tutto è cambiato in meglio, anche da questo punto di vista. Con le varie amministrazioni di sinistra qui a Torino poi abbiamo avuto rapporti e scambi ondivaghi: chiedevamo di utilizzare la Sala delle Colonne del Municipio per organizzare degli incontri a tema, oggi si direbbe LGBTI. A partire dagli anni ’80, con le iniziative culturali del FUORI abbiamo invece riscontrato un atteggiamento molto positivo da parte degli assessori alla cultura, , attenti alle nostre richieste –una novità rispetto ai soliti impiegati di apparato con i para-occhi.

Come nasce la tua affiliazione al Partito Radicale?
Io mi sono sempre interessato di politica, ma il Partito Radicale lo seguii con particolare attenzione, per il suo accento posto sui diritti civili e poi perché era un partito non filtrato da ideologie. Nel 1972 andai a seguire l’XI Congresso del Partito Radicale che si tenne qui a Torino, nella sede di Unione Culturale, il centro fondato da Franco Antonicelli con sede a Palazzo Carignano. Sono rimasto molto colpito dalla totale libertà che vi respiravo…a nessuno importava il particolare della mia omosessualità. Dopo tre giorni di congresso, molto stimolanti, in cui capii che quello era il “mio” partito, io ed altri amici ci siamo ingegnati per trovare una sede del partito qui a Torino, cosa che facemmo nello studio di uno di noi. E da lì comincia la mia “avventura” con il P.R. che finisce a metà degli anni ’90 quando poi smisi di fare il militante per occuparmi a “tempo pieno” di Israele, cosa che comunque  facevo anche prima. Quando Radio Radicale si trasferì a Roma, io avevo un programma ogni lunedì mattina dove facevo la rassegna stampa di quello che i giornali stranieri dicevano di Israele, si chiamava “Niente di personale”, poi è andata avanti negli anni, cambiando nome.

Tutti i militanti del F.U.O.R.I.! erano anche militanti del Partito Radicale?
A partire dal ‘72/’73 buona parte di noi lo era. Certo, non tutti. Alcuni avevano lasciato perché consideravano il P.R. un partito riformista e quindi contrario ai loro ideali rivoluzionari di “rottura” con le sovrastrutture economiche e politiche. Credo che col tempo un 10 % dei militanti del F.U.O.R.I.!  se ne sia andato per questa ragione. Noi abbiamo continuato con le nostre riforme civili perché convinti che solo attraverso queste si potessero ottenere dei cambiamenti concreti. Alcuni hanno creato diversi gruppi locali, in Lombardia, in Emilia Romagna, ecc… Alcuni erano piccoli gruppi teatrali dove tra gli altri c’era anche Mario Mieli che credeva nella scomparsa della mascolinità, ritenendo che l’uomo doveva “femminilizzarsi”.


Qual era il vostro rapporto con la politica di allora, e come vi relazionavate con il mondo della sinistra?
Avevo amici, tutti di sinistra, molti con la tessera del PC che non vedevano di buon occhio neanche la mia visibilità. Quando annunciai che presto sarebbe nato il movimento di liberazione omosessuale alcuni di loro mi invitarono a desistere dicendo che rischiavo di perdere la clientela della mia libreria: “la sinistra non è ancora pronta”, dicevano, o “il Partito non ci ha detto ancora niente su come bisogna pensarla su questi temi”. Io rispondevo che non aspettavo certo il partito e oltretutto proprio questo scetticismo mi dava in qualche modo la spinta finale ad andare avanti. E quanto alla libreria, se mai ho perduto qualche cliente molti altri ne ho guadagnati. Un episodio emblematico è quello della sottoscrizione per il Manifesto del ’72. In quell’anno il giornale aveva indetto una sottoscrizione per diventare quotidiano e noi, che guardavamo comunque con interesse a tutto quello che si muoveva a sinistra  -anche nella speranza di poter vedere l’”elefante” PCI smosso da iniziative interessanti- abbiamo deciso di contribuire con una donazione, raccogliendo 172 mila lire- che allora era una bella somma. Che delusione vedere che il Manifesto segnalò la donazione scrivendo che proveniva da “un gruppo di Torinesi” omettendo la parola “omosessuale” –come invece avremmo voluto! Insomma, anche per chi criticava l’immobilismo del PCI la parola omosessuale rimaneva un tabù. Un altro episodio emblematico è quando siamo stati invitati, tra gli anni ’60 e ‘70 dalla famosa rivista di filosofia “Utopia”. Vollero allora conoscerci perché ritenevano che rappresentassimo un segnale interessante  di come a sinistra qualcosa si stesse muovendo…(noi eravamo molto “di sinistra” per le rivendicazioni che avanzavamo ) e ci dettero appuntamento da loro a Milano. Quindi le nostra redazioni (Utopia e Fuori) si riunirono insieme (c’era anche Mario Mieli, già molto conosciuto a Milano) e  tra conversazioni dotte e filosofiche a un certo punto io dissi che se mi fossi trovato nell’obbligo di lasciare immediatamente l’Italia e la scelta fosse stata tra San Francisco e Mosca, io avrei senz’altro scelto la prima. Loro, pur essendo critici nei confronti dell’URSS, erano fortemente anti-americanisti (per loro era l’Amerika) e a quella mia affermazione sono sbiancati tutti e hanno capito che noi non eravamo della stessa “farina” con cui erano fatti loro. Ci siamo salutati e mai più rivisti. Questo per dire che avevamo già le idee ben chiare su chi eravamo:  libertari ma non rivoluzionari nel senso tradizionale. E i fatti ci hanno dato ragione.

Come furono i rapporti con Arcigay?
Inizialmente i rapporti –se non altro politici- non furono buoni: basti pensare che l’Arcigay era un’emanazione del PCI che fino a poco tempo prima considerava l’omosessualità come una “deviazione borghese”. Inoltre noi come Radicali eravamo molto avversati dal PCI a causa delle nostre battaglie (diritti civili, divorzio, aborto) che toglievano loro molti voti... Inoltre non aiutava il fatto che per lungo tempo l’Arcigay ha continuato a presentarsi come l’unico movimento italiano cercando un po’ di cancellare le tracce del passato…questo finche non sono arrivate le nuove generazioni dell’ARCI che hanno potuto studiare la storia del movimento gay. Da qui in avanti sono stato invitato varie volte dall’Arcigay a presentare i libri che via via pubblicavo e parlare anche del F.U.O.R.I.! E’ insomma caduta l’idea del grande movimento nazionale, sono stati riconosciuti anche tanti piccoli, importanti movimenti nazionali, la rete degli avvocati, il gruppo dei genitori degli omosessuali, le famiglie arcobaleno… ognuno si è ritagliato il proprio ruolo senza più disconoscere o fare attività contro gli altri. Quindi oggi diciamo che ognuno rispetta l’idea dell’altro e i rapporti sono molto migliorati.

Quando e come l’associazione ha deciso di lasciare il passo a una fondazione culturale?
La fondazione FUORI è nata nell’’80 - all’inizio si chiamava Sandro Penna- perché si avvertiva che il destino del F.U.O.R.I.! come  movimento era arrivato alla fine. Questo perché nessuno di noi lo faceva come “mestiere”, essendo tutti militanti. La verità è che quello che il F.U.O.R.I.! poteva dare l’aveva dato: sia dal punto di vista dell’attività dentro il Partito Radicale - partito nel quale tanti hanno continuato a militare- sia come movimento LGBTI. E infatti dopo tre anni, nel 1985, nacque l’Arcigay a Bologna. La fondazione  è nata con l’intento di non disperdere la memoria e il senso di quanto avevamo fatto con il movimento. Abbiamo quindi cominciato a creare l’archivio, in parte con libri e documenti nostri. Poi con volantini e manifesti, e tutto quello che abbiamo fatto come movimento: registrazione di incontri politici, documentari; tutto nella sede di Via Santa Chiara 1 a Torino che è diventata la sede della fondazione dall’86. Sede culturale e delle iniziative: vi abbiamo fatto congressi, dibattiti, abbiamo coinvolto le istituzioni, le amministrazioni locali, abbiamo organizzato convegni sempre  a tema LGBTI. Negli anni ‘80 abbiamo iniziato con un corso chiamato “La natura del pregiudizio”, a cui hanno partecipato Fernanda Pivano, Goffredo Parise, Gaia Servadio e altri (hanno assistito tra gli altri Paolo Poli e Franca Valeri). Gli atti di questo corso  sono poi stati stampati da noi e distribuiti da Einaudi. 

Nel frattempo, arrivati alla sede della Fondazione Fuori ci raggiunge Enzo Cucco, storico militante del F.U.O.R.I.!, Direttore della Fondazione e Presidente dell’associazione del Partito Radicale “Certi Diritti”.
Enzo: il bene fondamentale della fondazione è naturalmente il suo archivio, che è unico in Italia. C’è una biblioteca che è sostanzialmente di saggistica accumulata negli anni grazie soprattutto ai lasciti di Angelo. Poi abbiamo le riviste. I giornali gay stranieri dell’epoca, degli anni ‘70: noi ne eravamo abbonati e li abbiamo tutti qui. Abbiamo anche video; abbiamo piccoli fondi, ma molto rari e specializzati, giacché si occupano tutti delle questioni LGBTI. Per esempio, una cosa che abbiamo solo noi e gli inglesi, è la raccolta dei ritagli di stampa. Dalla fine anni ‘60 a oggi, Angelo  ritagliava gli articoli dedicati alle questioni gay –(oggi si fa anche in digitale).  Questo significa che nel corso degli anni abbiamo accumulato 60/70 mila ritagli di stampa. Non so che valore possano avere da un punto di vista economico, ma da quello storico-culturale hanno un valore enorme. Non c’è nessuna collezione al mondo cosi monotematica e specializzata, a livello di rassegna stampa. Poi ci sono materie “di grigi”, cioè pubblicistica che va dai dépliant e leaflets, insomma tutto ciò che non è né libri né rassegna stampa. Soprattutto collegata ai primi anni del movimento per l’effetto dello scambio che c’era allora tra la rivista Fuori, la nostra produzione, e tutto quello che si faceva all’estero.


Quali iniziative avete promosso con la fondazione?
Enzo: questo è il primo compito della fondazione, conservare la memoria attraverso le sue testimonianze e valorizzarle. Poi ci sono iniziative culturali, le più varie: presentazioni di libri, di spettacoli teatrali, di compagnie danza; pubblicazioni di libri; pubblicazioni di riviste. Nel ‘72 la rivista Fuori! è uscita in edicola 30 mila copie e per 6 mesi è andato in tutte le edicole di Italia, poi ha continuato nel formato “Quaderno” e infine abbiamo pubblicato una rivista Sodoma di cui sono usciti 5 numeri, fatto a formato di quaderno: una rivista culturale, con nomi grossissimi che trattavano narrativa, saggistica storica, saggistica non storica. Era l’unica voce del tempo che cercasse di pubblicare qualcosa che fosse un po’ di più della semplice cronaca, che offrisse un’opportunità di approfondimento e di ricerca sull’omosessualità. Abbiamo invitato a Torino David Levitt e pubblicato George Mosse, che concesse a Sodoma un’intervista sull’omosessualità e il Nazismo in Germania. Siamo stati i primi a pubblicare il saggio di William Bartley III che è stato il riscopritore dell’omosessualità di Wittgenstein (in Italia non si diceva  che fosse omosessuale), così come abbiamo pubblicato per la prima volta Simon Karlinsky e la “sua” storia della repressione degli omosessuali russi pre e post rivoluzione. Lui è stato il primo studioso che ha ricercato su questo tema e ha anche pubblicato su Gay Sunshine. Su Sodoma pubblicavamo le traduzioni dei suoi saggi. Sodoma aveva questa funzione di ammodernamento, di “aggiornamento”. Abbiamo pubblicato inediti di Aldo Busi, di Elio Pecora , di Sandro Penna -uno dei più grandi poeti del Novecento che scriveva solo poesia a tema omosex. In questo senso si può dire che noi siamo stati pre-monitori e pre-veggenti. Basti pensare che nell’Ottobre del 1980 abbiamo fatto un congresso in cui all’ordine del giorno c’era il matrimonio tra persone gay e unioni civili…al nostro interno se ne discuteva da mesi. E anche per questo Pannella - che era contrario al matrimonio- venne comunque al nostro congresso di Torino. Noi siamo stati antesignani… L’attuale  movimento si ricorda poco di ciò che fece il F.U.O.R.I.! ma quelle di oggi sono le stesse battaglie che facevamo allora.

Perché tutto questo è avvenuto a Torino e non altrove? Cosa aveva Torino di speciale?
Enzo: la mia impressione è che la scintilla è scoccata a Torino perché c’era Angelo, c’era Carlo,c’era un gruppo di persone molto impegnate. Perché la sua libreria (di Angelo) era il punto di riferimento della sociologia  e della letteratura underground negli anni ‘60  e ‘70. Certo, quando poi è arrivato il terrorismo è cambiato tutto, già la prima parte degli anni ‘70 era molto diversa da quella degli ultimi anni. C’è stato un contesto favorevole, ma non era molto diverso da Roma e Milano.

So che qui a Torino state portando avanti un’iniziativa interessante a favore degli anziani LGBTI….
Enzo: sì, abbiamo creato un’associazione che si chiama Lambda che si dedica all’assistenza di persone anziane LGBTI. Assistenza a domicilio, ovviamente, dato che non ci sostituiamo ai servizi comunali: facciamo solo affiancamento e accompagnamento, un modo per rompere l’isolamento e fare compagnia. E’ il futuro del movimento omosessuale perché è una questione di numeri: la popolazione invecchia e invecchia anche la comunità di persone LGBTI con le loro specificità e le loro esigenze..
Noi abbiamo proposto un progetto al comune di Torino per avere una struttura con una reception e sotto i servizi comuni quali cinema, lavanderia, sale per gli incontri, biblioteca... Eravamo riusciti a mettere insieme Comune, Regione e Provincia ma ci dissero esplicitamente  che non sarà mai dato un soldo pubblico per la residenzialità dei gay perché questi non rappresenterebbero una fascia debole. Purtroppo essere gay non è per le nostre pubbliche amministrazioni un punto a favore di progetti per la residenzialità. Solo per la residenzialità temporanea. Ma la residenzialità temporanea può andar bene, ad esempio, a un ragazzo che scappa di casa, non certo a una persona anziana. All’estero le cose funzionano  ben diversamente: in California hanno creato bellissime case di riposo per omossessualiche tuttavia hanno il limite di attirare i più facoltosi. In Europa invece ci sono alcune esperienze interessanti, a Berlino e Madrid. Si è deciso di affidarsi a un sistema di cohousing“misto”, dove vengono accolte non solo persone anziane, ma anche giovani scappati di casa, rifigurati politici per omosessualità o famiglie con bambini: insomma una piccola comunità LGBTI che avrebbe anche il vantaggio di rendere meno “triste” l’esperienza di permanenza alle persone anziane. 
Angelo: da notare che le esperienze citate (Madrid e Berlino) sono iperfinanziate dagli enti locali e dai governi, con centinaia di migliaia di euro. In Israele ci sono ottime strutture del movimento e anche di residenza, finanziate dallo stato e dalle municipalità. La popolazione invecchia –tutta la popolazione - e aumentano i singles in una società che deve porsi il problema di come gestire il problema. Tutte le esperienze di cohousing dovrebbero essere benvenute, non solo quelle dei confronti dei gay. Nell’ottica di realizzare un welfare di prossimità, occorre guardare specificatamente ai bisogni dei segmenti sociali: quindi ci si accorgerà che gli anziani LGBTI hanno delle esigenze specifiche.

Angelo, tu hai fatto politica in prima persona, essendo stato eletto deputato per il P.R. nel’76. Oltre  a te c’è stata la voglia di fare politica attiva all’interno del F.U.O.R.I.?
Angelo: poco a dire il vero… Io avevo avuto questa spinta grossissima nel ‘76 da parte di Marco Pannella perché quell’anno fu lui a mettere capolista in tutta Italia solo donne e poi, secondi, gli omosessuali. Ha trovato me disponibile, mentre per altri nel ‘76 ancora non c’era questa sicurezza di esporsi, fare comizi nei teatri, dichiarandosi apertamente. Io l’ho fatto e sono arrivato secondo, a Genova -neanche a Torino (dove ero il terzo). Il mio primo comizio  fu al  Teatro Carignano nel ’76. Qui dovevo fare un lungo discorso sulla condizione omosessuale, ricordo che il teatro era pienissimo... in realtà avrò parlato in tutto 7/8 minuti: ero bloccato, ho detto delle cose molto emotive ma anche molto applaudite.

Come nasce il tuo legame con Israele?
Angelo: avevo cominciato a interessarmi alla Storia degli Ebrei. Quando ho cominciato a leggere i libri di storia ho capito la funzione storica della Chiesa cattolica, l’antigiudaismo prima e l’antisemitismo dopo, e questo mi aveva molto colpito. Ricordo che a 16 anni (frequentavo ancora il Liceo) scrissi una lettera  all’Arcivescovo della mia diocesi  in cui chiedevo di cancellarmi dai registri in quanto non volevo essere più cattolico, spiegando di aver preso coscienza della storia millenaria dei crimini commessi dalla Chiesa… ovviamente non mi ha mai risposto. Frattanto il mio interesse per l’ebraismo cresceva in parallelo… non era tanto la religione ad interessarmi, quanto la cultura ebraica in generale. Nel ’66 l’allora Rabbino di Torino mi propose di studiare un po’ di ebraico in modo da poter comprendere meglio i contenuti della cultura ebraica. Conobbi uno studente israeliano del Politecnico - come ce ne sono molti anche adesso- che insegnava la lingua di Israele. Con lui ho studiato un anno e mezzo ebraico. Poi irrompe la guerra dei Sei giorni (1967) e naturalmente si interrompe tutto di fronte alla guerra: io vado a iscrivermi tra i volontari (ricordo che l’impiegato responsabile delle registrazioni si stupì che volessi partire non essendo ebreo) ma fortunatamente tre giorni dopo la guerra finì e io rimasi a casa. Questo episodio ha segnato molto il mio percorso verso Israele. Ripresi l’apprendimento dell’ebraico solo negli anni 80 quando ho cominciato a viaggiare  costantemente in  Israele frequentando anche un Ulpan (scuola di lingua).


Il tuo lavoro radiofonico di allora è forse il prodromo di quella che è adesso la tua attività con Informazione Corretta. Come nasce?
Angelo: Nasce nel Marzo 2001, un anno cruciale: vi fu il congresso ONU contro il razzismo a Durban -in  Sud Africa- che invece si trasformò in un congresso razzista contro USA e Israele; è l’anno dell’attacco alle Torri Gemelle a New York. E poi è l’anno della Seconda Intifada. Informazione Corretta nasce insieme a Fiamma Nirenstein a casa sua a Gerusalemme; ci chiedemmo cosa potevamo fare a favore di Israele. Abbiamo deciso di utilizzare internet – e abbiamo fondato un quotidiano con alcuni collaboratori che curavano la rassegna stampa dei giornali italiani per analizzare e commentare come “i media italiani descrivono Israele, il Medio Oriente e il mondo Arabo” (successivamente anche  “il terrorismo”). Ho lavorato a questo progetto assiduamente, dalle 6 del mattino in poi per controllare cosa scrivevano i giornali. E’ un lavoro non di cronaca, ma di “smascheramento” dei pezzi che sono palesemente scorretti o ideologicamente distorti dal pregiudizio contro Israele e contro la verità dei fatti. Ci occupiamo anche di questioni culturali ebraiche e abbiamo una sezione di libri, consigliati e raccomandati.

Come spieghi questo doppio binario che ho riscontrato spesso, tra l’impegno/attivismo per i diritti LGBTI e l’attrazione per l’Ebraismo e/o l’ interesse per Israele. Ad esempio leggevo che tra i fondatori del F.U.O.R.I.! c’era Mario Mieli, che era ebreo e anche Alfredo Cohen...
Angelo: Mario Mieli non è stato tra i fondatori ma uno dei protagonisti, nel ’72, della prima manifestazione pubblica della causa LGBTI in Italia promossa dal F.U.O.R.I.! Questa avvenne davanti al Casinò di San Remo, dove il 7 Aprile del 1972 un congresso di psichiatri si riunì per proporre una legge che criminalizzasse l’omosessualità. Noi eravamo circa una ventina e siamo riusciti a mobilitare altrettanti militanti provenienti da tutt’Europa. Lo scopo era ovviamente boicottare i lavori del congresso e rivendicare il nostro diritto di parlare per noi stessi, senza che un gruppo di psichiatri si arrogasse l’arbitrio di giudicare cosa fosse giusto o sbagliato per gli omosessuali. Da Londra venne Mario Mieli per conto della Gay Activists Allience e da lì nacque una bella e duratura amicizia. Lavorammo insieme alla redazione del Fuori! che usci dopo un paio di mesi, e dove lui per circa due anni contribuì con i suoi articoli. Mieli era di famiglia ebraica, non vivendolo però in maniera militante. C’era anche Alfredo Cohen, ma non era ebreo... Cohen era uno pseudonimo, lui faceva l’insegnante e aveva timore che, se si fosse saputo che era gay poteva avere ripercussioni nel suo lavoro… perché in quegli anni dire di essere gay significava correre il rischio di essere licenziati…Scelse il cognome di Leonard Cohen, visto che l’ammirava molto e che tra l’altro scriveva canzoni… Alfredo diventò un cantante e poeta bravissimo, pubblicò un album di canzoni e scrisse regolarmente su FUORI!  Lo aveva molto apprezzato anche Franco Battiato che lo aiutò nel suo primo e ultimo 33 giri. Lui poi ha lasciato la scuola e si impegnò nel teatro. E’ stato il mio compagno di vita per cinque anni.

Oggi che in Italia è finalmente passata la legge sulle unioni civili, si può forse dire che la politica abbia fatto propria una certa agenda dei diritti. Allora?
Angelo: no, allora non c’era niente… Semplicemente perché non esisteva la “questione omosessuale”. Tutti dicevano che in Italia non c’era nulla legge contro i gay e tanto bastava. Gli omosessuali potevano fare tutto ciò che volevano –privatamente. Io dicevo che no, che fin tanto che non avessimo diritti certi non eravamo niente. Mi si diceva che la sessualità non aveva mica bisogno di diritti… era talmente difficile avere gli strumenti –anche concettuali- per convincere gli altri dell’importanza di questa battaglia...si lottava per la visibilità. Non pensavamo ancora al fatto che se avessimo avuto i diritti civili avremmo avuto la reversibilità della pensione, avremmo potuto visitare il partner all’ospedale, essere certi a chi lasciare i nostri beni …no, non esisteva neanche la percezione di questi diritti, non l’avevamo ancora presa nelle nostre mani, non era un tema su cui lavorare politicamente. Il problema della persona gay nel quotidiano era quello essere visibile, omosessuale. Identità-Visibilità-Diritti. Questa era la direttrice verso la quale ci siamo mossi dagli anni 90 in poi e grazie a questo nuovo impegno oggi siamo arrivati alla legge sulle unioni civili.

E oggi come la vedi sulla questione dei diritti civili?
Angelo: trovo che questa legge pur essendo nata “monca”, a causa del tradimento del Movimento 5 Stelle che l’ha boicottata al Senato, sia una grande conquista. E sono convinto che se anche ci fosse un referendum sulla sua abrogazione noi lo vinceremo, come ai tempi del divorzio, quando la maggioranza degli italiani ha disubbidito alla chiesa. 

Non ti sembra strano che alla fine dei conti, la sensazione che si ha è che la legge sulle unioni civili sia passata non in virtù delle decennali battaglie dei movimenti LGBTI, ma per il momento politico propizio, dovuto alla forza di una senatrice (Cirinnà)  e alla determinazione del Premier Renzi…?
Angelo: Se oggi il tema dell’uguaglianza dei diritti per le persone LGBTI è diventato un tema politico per i  media nazionali è soprattutto grazie ai vari movimenti LGBTI. Abbiamo portato alla ribalta un tema che prima era solo sussurrato e che adesso tutti discutono. Poi bisogna anche riconoscere che il voto alla Camera dopo quello del Senato è stato il risultato di un governo che ha saputo imporre la fiducia dando direttive chiare su come votare. Il premier Renzi ha mantenuto quanto aveva promesso nella campagna elettorale.

Visto che parliamo di politica voglio sapere cosa pensi dell’assessorato alle politiche sociali ricoperto da Alessandro Giusta, Presidente dell’Arcigay Torino, nella giunta 5 stelle dell’Appendino.
Angelo: Alessandro Giusta ha avuto molti rapporti con gli assessori delle giunte precedenti. Oltretutto ha risposto a un invito da parte dell’attuale sindaco Appendino, pur non avendo fatto campagna elettorale attiva per lei. Inoltre si è dimesso da tutti i ruoli che aveva all’interno dell’Arcigay. Io ammiro chi è ambizioso in politica e apprezzo la scelta di Giusta. E poi Fassino non glielo aveva chiesto, non ha avuto questa sensibilità.
26)Da militante gay non mi sentirei a mio agio a votare per un partito che ha impedito l’approvazione della stepchild adoption nella legge sulle Unioni Civili...
Angelo: ma infatti io mi auguro che in Italia i gay non votino il m5s, perché grazie al loro tradimento non abbiamo la stepchild adoption…quindi hanno una colpa oggettiva…e ti chiarisce che razza di partito è…basta guardare un comizio di Grillo...

Le persone omosessuali oggi ti sembrano più o meno sensibili alla “causa LGBTI” ? Credi che la maggior parte dei gay oggi si senta coinvolta per creare un modo migliore?
Angelo: la gente che legge e che studia è pochissima in Italia, anche nel mondo omosessuale… Ritengo che ci sia un disimpegno fisiologico … Se tu pensi che il rapporto Kinsey negli USA (1946) aveva stabilito che il 5% degli americani aveva avuto almeno un’esperienza omosessuale, vuol dire che se dovessero rifarlo adesso il dato lieviterebbe- e molto!-grazie al cambiamento avvenuto in tutti questi decenni. In Italia ci sono circa 6 milioni di persone LGBTI, una cifra importante e “spendibile”… sarebbe sbagliato pensare a un “partito degli omosessuali”, ma con i numeri che abbiamo, potremmo rappresentare una forza sociale nel Paese per la difesa di tutti i diritti civili… senza dimenticare che il disimpegno fa parte  della democrazia. Chi vive in dittatura capisce che deve ribellarsi per avere la libertà, quando invece uno nasce in un paese dove la liberta c’è già - che è poi la cosa essenziale- c’è una naturale tendenza al disimpegno...

Il movimento LGBTI oggi, singolare o plurale?
Angelo: Plurale, senza dubbio. In Italia ci sono movimenti e organizzazioni dedicati a tematiche specifiche che ammiro e stimo moltissimo. Tutte le persone LGBTI dovrebbero conoscerli e dare il loro contributo.
29)Queste realtà di oggi, rispetto al F.U.O.R.I.! come ti sembrano?
Angelo: a parte gli argomenti che si sono “evoluti”, noi abbiamo fatto da battistrada. La pista che allora noi abbiamo aperto oggi la percorrono in tanti. Mi piace utilizzare questa metafora: noi abbiamo costruito l’impianto elettrico, chi è arrivato dopo ha acceso la luce. E sono contento che siano in tanti oggi ad accendere la luce, dopo che per 15 anni noi del F.U.O.R.I.! abbiamo fatto gli elettricisti. E poi le cose cambiano, com’è giusto che sia…!








domenica 15 maggio 2016

EXPO 2015: una sfida vinta per l'agro-alimentare italiano?




Oggi, a oltre un anno di distanza dall’evento che ha segnato l’estate Italiana e che ha fatto di Milano il palcoscenico di un evento internazionale di grande importanza, sono forse maturi i tempi per un’analisi ponderata dei costi e dei benefici che l’Italia ha tratto dall’esperienza EXPO.

L’entusiasmo del pubblico è stato ribadito dagli oltre 19 milioni di visitatori (il numero dei biglietti venduti risulterebbe in realtà maggiore) che hanno sfidato caldo e file interminabili per ammirare i padiglioni dei vari paesi. E anche alla luce di questi dati, gli organizzatori e il governo hanno proclamato il successo dell’evento. Ma è stato davvero così?

Mettendo momentaneamente da parte il numero dei visitatori soddisfatti, è inevitabile che un evento di siffatta portata generasse e generi tutt’ora una forte polarizzazione tra l’opinione pubblica, sviluppando due fazioni distinte: i Pro-Expo ed i No-Expo.

I primi puntano sull’ elevata affluenza all’evento e sulla sua particolarità. Tramite il suo sito ufficiale, Expo ha evidenziato a più riprese l’importanza dei 21,5 milioni di biglietti strappati. Innegabile che Milano abbia beneficiato della sua organizzazione, seppur forse non si sia verificato quel boom nelle prenotazioni alberghiere che gli esercenti si aspettavano alla vigilia. Forte l’accento posto anche sulle opportunità occupazionali offerte dal semestre, specie per la fascia d’età giovanile (anche se molto si potrebbe dire sulle forme e sui contratti di questi lavori).
Diametralmente opposta la visione dei No-Expo. Prima ancora del suo avvio a causa dei procedimenti giudiziari che hanno riguardato alcune delle ditte nei cantieri di EXPO. Inoltre, anche la presenza di numerose multinazionali non è stata vista positivamente: Coca-Cola, McDonald’s, Nestlé, Eni ed Enel i principali bersagli della critica.
Naturalmente non mancano le polemiche ex-post riguardanti i bilanci che credo, più o meno surrettiziamente, continueranno ad essere alimentati dai detrattori di Expo e del suo commissario, ora candidato a Sindaco di Milano, Giuseppe Sala.
Ma non è su questi aspetti che vorrei concentrarmi in questa sede, bensì vorrei analizzare le ricadute sulle piccole e medie imprese dell’agro-alimentare italiano cui pure l’ Esposizione Universale era dedicata. Riusciremo a raccogliere «l’eredità immateriale», come l’ha chiamata il Ministro delle politiche agricole Maurizio Martina, per affrontare le sfide globali legate ai temi della manifestazione? O più modestamente si è trattato di un momento di slancio del Made in Italy –in campo agro-alimentare- , di confronto con i principali competitors internazionali, di occasione per il rilancio delle tante piccole imprese che producono le eccellenze italiane del cibo. O neanche questo?


In questi mesi v’è stata una forte presenza del governo sul sito Expo, coi suoi Ministri e con lo stesso Presidente del Consiglio. Giustamente, se si pensa che il settore agricolo rappresenta per l’Italia il 27,9% del nostro PIL e che, nel periodo compreso tra il 2004 e il 2014, l’industria alimentare ha visto aumentare il valore del suo export del’83%, praticamente il doppio rispetto al totale dell’export italiano. Il Ministro Martina, vero padrone di casa dell’evento, ha effettivamente promosso diverse iniziative tese a rilanciare non solo l’immagine ma anche le potenzialità degli operatori agricoli italiani. Vorrei qui citare solo alcuni eventi che ritengo significativi in questo consesso.

Non è un caso che nel corso del semestre particolare interesse l’Italia abbia nutrito nei confronti dei cluster (gruppi di paesi raccolti attorno la produzione di un determinato prodotto) Cereali, Cacao e Caffè, prodotti di cui l’Italia è il principale importatore. Sappiamo come quasi 1/3 dei consumi agro-alimentari del nostro paese è coperto da beni di importazione (mentre poco meno di ¼ di beni AA viene esportata) , e questi riguardano principalmente i Cereali, Cacao, Caffè appunto. L’Interesse italiano verso questi paesi esportatori è stato corroborato da una serie di business to business che hanno riguardato non solo gli aspetti tecnici della produzione e della coltivazione, ma anche aspetti più propriamente commerciali, riunendo attorno a un tavolo produttori locali ed importatori, agricoltori locali e nostrani consentendo in questo modo una condivisione di know-how, su cui il nostro Paese ha effettivamente un valore aggiunto rispetto appunto agli altri concorrenti del settore.

Significativo per l’attenzione posta sulla competitività delle nostre piccole e medie imprese è stato il forum che ha riguardato le regioni italiane e l’Unione Europea incentrato sul Programma di Sviluppo Rurale (PSR) 2014-2020:  uno straordinario strumento di incentivi e finanziamenti, che se ben sfruttato rappresenterebbe un efficace stimolo alla competitività del nostro settore agricolo. E tuttavia, proprio sull’accesso a queste risorse pesa uno dei limiti strutturali del nostro paese, e cioè la dimensione ridotta della maggioranza delle nostre imprese. Tra i soggetti sussidiati, 700 grandi aziende agricole ricevono il 15% del totale dei contributi europei. L'8% degli agricoltori italiani ricevono il 50% dei sussidi. L’80% delle aziende italiane non supera i 5 ettari (dati ISTAT). Un problema a mio avviso fondamentale che frena di molto le capacità espansive del nostro Export specie se messo di fronte e competitors molto più grandi e industrializzati come quelli dei nuovi mercati dell’Asia. Su questo aspetto le proposte elaborate sono state diverse, declinate secondo le esigenze dei vari attori regionali -ora  non entro nel merito- ma mi sembra opportuno segnalare l’impegno del governo italiano a farsi da garante per rinegoziare la soglia (verso il basso) di accesso per le imprese ai fondo del PSR e dall'altro di facilitare la creazione di un polo logistico che accentri la produzione, senza con questo andare a discapito delle specificità e della qualità che fanno forte il nostro tessuto produttivo. Se mi pare alquanto improbabile l’esito del governo italiano nel rinegoziare quanto già pattuito con la Commissione Europea, più interessante è stato l’impegno del Ministro Martina a provvedere a ulteriori stanziamenti da investire sul settore agricolo.  In questo senso va segnalato positivamente il Protocollo d’Intesa tra Ministero dell’Agricoltura e Intesa San Paolo, annunciato ad EXPO e recentemente realizzato per l’attivazione di un plafond di investimenti dedicato da 6 miliardi di euro in tre anni per il finanziamento di imprese e filiere produttive oltre a servizi finanziari ad hoc per le esigenze dell'attività agroalimentare. 

In terzo luogo, altro importante segno lasciato da quest’ EXPO è stato il rinnovato impegno alla lotta contro la contraffazione e l’Italian Sounding, cioè l’imitazione di un prodotto, di una denominazione o di un marchio attraverso il richiamo alla sua presunta italianità.  (La «Mortadela Siciliana» in Argentina la «Provoleta» toscana. E poi c’è il «Parmesan» australiano, con la garanzia «perfect italiano» sulla confezione). Chi ha visitato EXPO forse ricorderà come al padiglione Coldiretti fu allestita una curiosa mostra con tutti quei prodotti finti-italiani che ahimè ricoprono buona parte degli scaffali soprattutto in America e non solo. L’impatto della contraffazione e dell’Italian Sounding -  cresciuto quest’ultimo del +180% negli ultimi 10 anni-  è pari a 60 miliardi di euro, circa la metà del fatturato totale del prodotto dell’industria alimentare italiana (132 miliardi di euro). Due simposi sono stati organizzati durante l’EXPO, sia dentro che fuori il centro espositivo, e sono state elaborate ad hoc delle iniziative tese a sensibilizzare quei Paesi in cui ancora le misure di controllo e di repressione si dimostrano alquanto “lasche”. Inoltre, un “pacchetto di proposte” di lotta alla contraffazione sono state presente in occasione dei diversi consigli informali dei ministri dell’agricoltura tenutisi proprio sul sito espositivo. Proposte che vanno da nuovi accordi commerciali tesi alla salvaguardia del marchio Made in Italy, fino a campagne di comunicazione e il rafforzamento della difesa della proprietà industriale e intellettuale. Queste misure basteranno? Sarebbe già positivo che venissero implementate e messe in atto, ma già di per sé il fatto che se ne sia discusso in un contesto così appropriato come EXPO e con un uditorio così vasto e interessato al fenomeno è senz'altro un importante passo avanti.

Allo stesso modo promettenti si sono rivelati tutta una serie di incontri bilaterali succedutisi nel corso del semestre, in occasione dei National days di ogni paese (praticamente uno al giorno): particolarmente importanti, dal nostro punto di vista, sono sati gli incontri tra la delegazione italiana e quella russa ( per il rilancio degli cambi commerciali dopo una serie di nefaste misure di boicottaggio alla Russia che ha finito paradossalmente per penalizzare il nostro paese) e quella con gli USA a seguito del prossimo Trattato di Scambio Transatlantico (il TTIP) che cela, tra le importanti opportunità, anche una serie di potenziali rischi per il nostro mercato nazionale. Tutti temi dibattuti tra il nostro Ministro Martina e la controparte USA proprio a EXPO.


In conclusione, credo che EXPO abbia senza dubbio rappresentato un fondamentale foro di dibattito sui temi dell’agro-alimentare.  Al di là dei toni trionfalistici e dal valore taumaturgico attribuito a EXPO per il rilancio dell’Italia nel mondo, resto convinto che proprio sul settore agro-alimentare questi sei mesi abbiano effettivamente giocato un importante ruolo di rilancio per il Made in Italy  a tutto vantaggio delle piccole e medie imprese che, pur tra le tante difficoltà, tra concorrenza più o meno sleale, contribuiscono alla prima voce  del nostro PIL e che fanno da apri-pista dell’eccellenza italiana nel mondo. Spetta adesso alla politica far sì che il “capitale immateriale” di EXPO (per citare il Ministro Martina) venga investito appieno in Italia e all’estero. E soprattutto che gli impegni dichiarati dal nostro governo in questi sei mesi per il rilancio del settore vengano confermati e  onorati.