sabato 6 giugno 2020

Il campo minato del nuovo “Faraone” dell’Arabia Saudita


Introduzione

Negli anni Sessanta l’ideologo islamista egiziano Sayyid Qutb definiva con il termine “nuovi Faraoni” quei leader laici della Umma Islamica che governavano contro i precetti della vera fede musulmana, perpetuando così la condizione di “empietà ed ignoranza” (jahilylya) propria del mondo arabo prima della venuta del Profeta (Kramer, 1997). Gli strali di Qutb, così come degli altri teorici dello Stato islamico, da al-Banna prima di lui a Mawdudi fino a Komeini- si scagliavano contro i modelli culturali di matrice illuministico-europea -con il loro corollario di  laicità e divisione dei poteri- ma anche contro il nazionalismo e più in generale contro ogni sistema che non rientrasse nella rielaborazione teorica e pratica dell’Islam politico.
L’esperienza storica ha individuato il successo dell’Islam politico solo in alcuni paesi (l’Iran di Komeini, il Sudan di al-Bashir, l’Afganistan dei Talebani) e solo in un periodo di tempo relativamente limitato (Kepel, 2000). Il caso egiziano, culla dei principali ideologi dell’Islamismo contemporaneo (al-Banna e Qutb) ha vissuto momenti convulsi ma fino ad ora non decisivi per l’attecchimento dell’Islam politico in tale paese. Dagli anni ‘50 del secolo scorso la Fratellanza musulmana venne repressa (Qutb fu giustiziato nel 1966 per ordine di Nasser), l’islamismo “imbrigliato” in un istituto legalitario e controllato all'interno dell’Università al-Azhar e financo timidamente cooptato con Sadat (Lia, 1998). Per quanto lo stesso Sadat sarebbe poi stato assassinato in un eclatante attentato nel 1981 dai seguaci di Qutb, la rivoluzione islamica da loro auspicata non avrà però la forza sociale di attecchire. Infine, l'ultimo capitolo delle vicende dell’Islam radicale in Egitto riguarda le Primavere Arabe del 2013 che hanno portato al governo, nelle prime elezioni libere del paese, un presidente membro dei Fratelli Musulmani, deposto poco tempo dopo dal generale Al-Sisi (Cavatorta, 2016). 


Rispetto alle convulsioni egiziane, l'Arabia saudita ha da sempre rappresentato un “porto sicuro” per quei dissidenti islamisti in fuga dalla repressione dei governi laici o socialisti e alla ricerca di un percorso di vita e di fede al riparo dell’ortodossia wahhabita (Vassilev, 2000). Il Regno saudita è infatti intrinsecamente legato alla visione rigorista dell’Islam (quella del riformista Muhammad Ibn Wahhab vissuto nel XVIII secolo) da cui trae la propria legittimità politica. Tale unione (simboleggiata nella bandiera nazionale dalla spada dei Saud e dal Libro santo) ha contraddistinto l'intera storia del paese, l'unico della Umma Islamica in cui gli Ulema hanno un potere istituzionale delle cui fatwa il regno si serve per sancire il proprio agire. Scelte politiche non sempre condivise dai movimenti più fondamentalisti dell’Islam sunnita. Non a caso il Regno è puntellato esternamente dalla storica alleanza con gli Stati Uniti (e prima ancora con l'Inghilterra) che ha salvaguardato il fondamentale ruolo geopolitico del Paese quale principale esportatore di petrolio (Gause, 1998). Proprio questa alleanza rappresenta però il tallone d'Achille del “patto sociale” (o per meglio dire religioso) con la galassia di movimenti rigoristi islamici attivi nel Regno. 
L'arrivo di truppe americane in Arabia Saudita in occasione della Prima Guerra del Golfo ha rappresentato la prima causa di dissenso dei movimenti salafiti (raggruppati nel movimento Sahwa che attecchirà a partire dagli anni ‘80) contro il regime che autorizzava l’arrivo di “infedeli nel Sacro Suolo dell’Islam”.  Dal canto suo il potere ha cercato di stemperare gli attriti con gli ulema restii ad accettare l'alleanza con il “Satana americano”, adottando alcune politiche in ambito sociale e religioso orientate a un'osservanza rigorosa dei codici di comportamento islamici: stretta sulle libertà civili, sull’autonomia delle donne e sull’ortodossia religiosa. Tuttavia la modernità e soprattutto lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi non sono passati in maniera anodina per uno Stato che si ritiene indefesso protettore di una versione monolitica e particolarmente rigida dell'Islam.

MBS

A cambiare il volto dell’anchilosata monarchia saudita, spesso vittima al suo interno di un complicato sistema di successioni e di intrighi che ne limitano le prospettive decisionali nel medio-lungo periodo, è intervenuto nel 2017 il giovane principe Mohammad bin Salman (classe 1985) il quale proprio quell'anno è stato nominato erede al trono dal padre Salman che, anziano e malato, nominalmente detiene tuttora il trono. Accumulando importanti cariche (Ministro della Difesa; Presidente del Consiglio per gli Affari Economici e di Sviluppo; Vice-Primo Ministro) è bin Salman l’effettivo detentore del potere assoluto in Arabia Saudita presentandosi così come uno dei più giovani governanti sulla terra. Cosmopolita, formatosi all'estero e con una forte ammirazione per gli Stati Uniti, Mohammad bin Salman (meglio conosciuto con l’acronimo MBS) rappresenta una novità assoluta per la gerontocratica struttura di potere saudita (Hubbard, 2020). La sua salita al potere non è stata esente da “scossoni” che sembrano però averne garantito la stabilità, attraverso metodi spesso controversi (dietro alla reclusione dorata di molti esponenti dell'élite nazionale all’interno di un hotel di lusso a Ryad, ufficialmente per motivi di corruzione, molti hanno visto una resa dei conti del giovane principe nei confronti dei suoi oppositori interni) e senza tanti scrupoli nel liquidare la dissidenza (esempio ne è il caso Khashogi). 


Nel chiaroscuro del panorama politico saudita occorre pure rilevare il deciso passo di cambio voluto da MBS nell’intraprendere un ambiziosissimo piano di modernizzazione che si muove su due piani paralleli: da un lato l’imperativo di diversificare  la produzione nazionale cercando di emancipare il Paese dallo status Rentier State legato al ruolo di primo esportatore mondiale di petrolio. Contemporaneamente, e in parte funzionale al primo obiettivo, modernizzare il Paese anche in termini di costumi e di una maggiore “liberalità” di modo da renderlo effettivamente un polo d'attrazione per gli investitori internazionali.

E proprio in questa doppia ottica si inserisce il discorso in chiave nazionalista che scombussola i pilastri dottrinali su cui si è sempre retta la monarchia saudita. Il concetto di nazionalismo (watraniyya) era stato già in parte sdoganato dallo zio di MBS nel 2003. (Champio, 2003). Fu re Abdullah, allora principe ereditario,  a istituire la Giornata Nazionale del Regno e fu sempre lui ad aprire, seppur timidamente, ad altre correnti dell'Islam saudita attraverso un’apposita assemblea che accolse financo la minoranza sciita (da sempre considerata “eretica” dal sunnismo specie se di matrice wahhabita). Oggi il concetto di nazionalismo propugnato da MBS si arricchisce di nuovi importanti significati, specie alla luce dei rivolgimenti storici intercorsi nell'ultimo decennio. In primo luogo le “Primavere arabe” hanno rivelato tutti i rischi di un fenomeno che in ogni sua variante (dallo slancio democratico all'opzione islamista) rappresenta un rischio concreto per gli equilibri della monarchia saudita. Una risposta a quelle istanze doveva dunque essere riformulata secondo un paradigma originale –e verticistico- in grado di mobilitare consenso attorno alla casa reale senza rischiare di coinvolgere passioni religiosi difficili da controllare. La lunga guerra allo Yemen poi, che rappresenta uno dei maggiori disastri umanitari dei nostri giorni  -e che per la famiglia reale si è rivelato un costosissimo fallimento in termini strategici, economici e di immagine- richiede un rinnovato incitamento all’orgoglio nazionale per continuare la mobilitazione di una popolazione ormai stanca di un inutile e dannoso insuccesso militare (vedi gli attacchi perpetrati dai ribelli Huthi alle raffinerie di Aramco in suolo saudita).

Nazionalismo e Contemporaneità

Soprattutto, il richiamo alla watraniyya è strumentale al grandioso piano di riforme volute da MDS che mira a fare dell'Arabia Saudita un polo d’attrazione di investimenti internazionali, diversificando la propria economia dalla dipendenza dal petrolio. Le ambizioni del giovane principe si sono concentrate sul progetto “Vision 2030” con la costruzione di avvenieristiche città nel deserto, hub di nuovi affari a marchio High-Tech da costruire con investimenti privati. Tale intraprendenza e l’operazione di public relations che MBS ha strenuamente promosso tanto all’estero quanto in casa non possono fare a meno di un puntello ideologico che stemperi l’immagine reazionaria degli imam wahhabiti alla quale la monarchia saudita è stata per lungo tempo associata. Per quanto lo slancio del giovane principe sembrerebbe propizio a rilanciare il nuovo ruolo dell’Arabia Saudita nel mutato scacchiere internazionale, MBS dovrà però fare i conti con le conseguenza che tale “restyling” potrebbero avere sul piano sia sociale che religioso.


Se negli anni ’80 i petroldollari hanno rappresentato un polo di attrazione per migliaia di personale non qualificato proveniente da ogni parte del mondo islamico e non solo, il drastico calo del prezzo del greggio rischia oggi di scombussolare il delicato equilibrio sociale su cui si basa la legittimità del regno (Gause, 1994). Triplicando il volume delle imposte dirette dal 5% al 15% (in un regime fiscale, tipico dei “rentier state” che fino a poco tempo fa quasi non conosceva tassazione) e bruciando miliardi di dollari con le minore entrate petrolifere c'è il rischio concreto dell’emergere delle proteste delle classi medie urbane, le quali sono sempre state al margine delle enormi ricchezze derivanti dall’oro nero, appannaggio  piuttosto dei ricchi tecnocrati e amministratori statali, spesso membri della stessa famiglia reale. Peraltro, se fino ad oggi il malcontento delle classi rurali di recente inurbamento ha potuto in qualche modo essere catalizzato in una pratica religiosa e in una visione del mondo consustanziali al regno (il Wahabismo) le aperture sociali e di costume inaugurate da MBS, per quanto timide siano, rischiano di disintegrare pure quella Pax religiosa che teneva “a bada” le classi più emarginate. La restrizione delle prerogative dei mutawi’a (in parte paragonabili ai pasdaran iraniani e incaricati di sovrintendere all’applicazione della regole religiose nella vita quotidiana) rischia di scontentare la parte più povera della popolazione di cui le milizie fanno parte, e che trova in tale ruolo una valvola di sfogo alla propria frustrazione socio-economica. 


Le prese di posizione del principe ereditario vanno poi in alcuni casi addirittura contro la sensibilità delle gerarchie wahhabite, come l’aver accentuato l'importanza della Giornata Nazionale Saudita del 23 settembre (in senso laico) provocando la ferma condanna dei religiosi. Indicativo di questo nuovo Zaitgeist è pure lo slancio adottato dal principe nel recuperare e valorizzare turisticamente siti archeologici pre-islamici, cosa che fa rabbrividire i più estremi tra gli islamisti iconoclasti che associano al periodo pre-islamico la condizione di jahilylya (ignoranza pagana appunto). Più in generale è la retorica nazionalista che sembra infiammare l'animo di MBS, in un discorso mai sentito prima, e che lo spinge a indicare un preciso periodo storico (antecedente al 1979, data in cui il legame tra il potere politico e quello religioso si rinsalda accentuando una stretta nei costumi e nella moralità) come auspicabile punto di riferimento per il regno del futuro. 

La Spada e il Libro: un rapporto difficile

D’altronde le fluttuazioni nei rapporti tra gerarchie ecclesiastiche e casa regnante hanno contrassegnato la lunga storia saudita: quando il carisma dei predicatori sovrastava quello dei regnanti erano loro a prevalere; né d’altro canto, agni inizi degli anni ’20 del secolo scorso, il capostipite del regno Abdul Aziz Saud ha esitato a sterminare i mujaheddin (Ikhwan)-supportato dall'aviazione britannica- quando questi si rivelarono una minaccia per la stabilità del potere (Kostiner, 1993). E fu proprio tra i clan i cui membri militavano nell’Ikhwan decapitato di allora che emerse il commando di estremisti che nel 1979 assalì la Grande Moschea della Mecca prendendone in ostaggio i pellegrini. Anche in quella occasione la repressione fu spietata e segnò un momento decisivo nella conflittuale dialettica tra monarchia e clero. Clero che paradossalmente, propio a seguito di quel fatto così drammatico, segna un punto a proprio favore: in cambio del rinnovato sostegno al re Khaled, gli ulema si vedono riconosciuti ampi margini di agibilità in ambito educativo, d’insegnamento e propagazione della fede, con radio e reti televisive loro dedicati. Inoltre ottengono quella stretta nei costumi e nella moralità pubblica che limita le libertà individuali -specie delle donne. E’ l’inizio della Sahwa (letteralmente “il risveglio”), un periodo di grande dinamismo nel campo religioso, impersonato da due carismatici ulema, Salman al-Ouda e Safar al-Hawali, in cui il salafismo wahhabita riceve e rielabora il contributo della fratellanza musulmana di matrice qutbista. Ed è proprio questo il 1979 cui il giovane principe si riferisce nel suo auspicio a un ritorno ex-ante.  


Tuttavia, i nuovi predicatori della Sahwa saranno meno prudenti della maggioranza del clero wahhabita nel non urtarsi con i sovrani, criticando l’”ignavia” degli ulema che li sostengono e denunciando l’esercizio di una sovranità secolare che –a loro dire– non può sostituirsi a quella divina. A queste diatribe di carattere dottrinario si aggiunge l'evento -traumatico sotto molti aspetti- rappresentato dalla Prima Guerra del Golfo alla quale l'Arabia Saudita partecipa. Non solo, ma autorizza la permanenza (che da allora sarà stabile) di truppe americane sul proprio territorio. Tale scelta segna una frattura nelle Sahwa, con la “vecchia guardia” degli ulema wahhabiti che sancisce con due fatwa la decisione del re, mentre le nuove generazioni di salafiti-qutbisti considerano la presenza straniera sul “sacro suolo” niente meno che un’empietà. Oltre a questi dissidenti, nelle persone di Al-Hawali e al Awda -che vengono subito arrestati- molti salafisti ancora più radicalizzati danno vita ad azioni violente, ad attentati e ad attacchi contro la presenza americana. Tra questi ultimi si annovera Osama Bin Laden che proprio da allora dà inizio alla propria “Jihad” contro “ebrei e nuovi crociati”(sic). 

Conclusioni

Si può affermare che il percorso di MDB sia in effetti appena iniziato, e come suggeriscono alcuni osservatori, il giovane principe ha il potenziale –sia genetico che costituzionale- per regnare fino al 2070. Il modo in cui ha fin qui gestito il potere -in un misto di crudeltà e aperture, modernità e tradizione- sembrerebbe avvicinarlo alle figure degli assolutisti illuminati dell'Europa del XVIII secolo. La grande incognita resta su come saprà reggersi su un equilibrio molto esile tra modernizzazione e wahhabismo, e su come la base sociale e islamica reagirà alle riforme annunciate. La “condanna” dell’oro nero, in una congiuntura attuale particolarmente difficile e nell’urgenza di affrancarsi dall’egemonia degli idrocarburi, necessita di una politica oculata ma inderogabile, che il giovane principe sembra aver intrapreso. Non sarà facile convincere chi fino ieri godeva degli enormi introiti legati al petrolio a sobbarcarsi i costi della riconversione economica: l'imposizione fiscale, una novità nei termini in cui viene oggi preannunciata e il calo di manodopera straniera legata alle restrizioni del Covid-19 rischiano senz'altro di provocare il malcontento della classe media urbana e di quella mercantile che hanno finora sostenuto la casa regnante. 
Il rischio concreto è che tale malcontento possa essere strumentalizzato e cavalcato da gruppi radicali salafiti o da singoli religiosi che non si piegano alla volontà della dinastia Saud. Se da un lato MBS sa di poter contare sulla “docilità” del Consiglio degli Ulema, presieduto dalla potente famiglia degli al-Sheikh (discendenti diretti di Muhammad Ibn Wahhab e nominati dal monarca stesso) spazi di radicalismo esistono al di fuori del Consiglio, come la storia del Sahwa ha dimostrato. Proprio quegli ulema che hanno interiorizzato e integrato il pensiero di Qutb, come Salman al-Awda o Safar al-Hawali che in passato si erano trovati in rotta di collisione con il potere per poi “reintrare nei ranghi”, sono oggi nuovamente sotto la scure di MBS che li ha fatti arrestare: al-Awda perché si è rifiutato di sottoscrivere la fatwa contro il Qatar e al-Hawali per essersi espresso a mezzo stampa contro il principe stesso. E’ questo il preludio di un rinnovato scontro tra un ambizioso giovane principe, un potenziale “nuovo faraone” da abbattere secondo la retorica integralista, araldo di un inedito nazionalismo saudita da un lato e una galassia islamista risoluta a ribadire l’egemonia dell’Islam integralista dall’altro? Dall’esito di tale eventuale tenzone, in cui il primo avrebbe tutto da perdere e la seconda tutto da guadagnare si gioca il destino della monarchia saudita e potenzialmente, dell'intero Medio Oriente.










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