Ad appena due settimane dagli esiti del voto europeo, che ha visto la netta
affermazione del Partito Democratico nel nostro paese così come l’avanzata
della destra xenofoba ed anti-europeista in importanti paesi dalla solida fede
democratica (ed europeista), già si profilano due modelli -nettamente
contrastanti-dell’Unione che sarà a partire da questa legislatura. Parlo di due
modelli, anche se in effetti sarebbe più appropriato parlare di tre, se ci si
attiene alle macro-tendenze politiche rappresentate nell’emiciclo del
Parlamento di Strasburgo/Bruxelles: da un lato abbiamo il gruppo della destra
conservatrice e dei Popolari che predilige il
metodo intergovernativo e che trova la sua espressione economica nel fiscal
compact e nel rigore “alla tedesca”: questo è il gruppo emerso come maggioritario
dalle urne il 25 Maggio; poi abbiamo un vasto blocco, che va dai Socialisti ai
Liberali alla Sinistra europeista che vorrebbe una riforma in senso
maggiormente democratico dell’intero impianto istituzionale dell’Unione e
reclama politiche economiche di crescita svincolate dal debito pubblico. Infine
abbiamo un eterogeneo blocco di partiti anti-europeisti, spesso populisti e
xenofobi che si prefiggono il ritorno alle prerogative nazionali (nazionaliste?),
la revisione dei trattati di Schengen, la fuoriuscita dall’Euro. Per quanto
questa minoranza conti per circa un quarto del nuovo Parlamento – e rappresentino
forze significative in paesi come la Francia e la Gran Bretagna – credo che il
dibattito politico, economico e istituzionale rimarrà appannaggio dei primi due
modelli che insieme rappresentano la vasta maggioranza dell’assemblea.
Lo spunto per comprendere la drammaticità del dibattito è offerto dalla
fase di transizione che l’Unione sta attraversando, con il rinnovo dei suoi
organi monocratici quali la Commissione e il Consiglio. Sulla pressante
richiesta di maggiore rappresentatività si decise, con il Trattato di Lisbona
del 2007, che il Parlamento Europeo avrebbe avuto l’ultima parola sulla scelta
della Commissione e del suo Presidente: certo, i governi potevano ancora
proporre un “loro” candidato, ma questi doveva essere espressione della
maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni europee. Così, ancor prima delle
sedute del Consiglio Europeo post-elettorale, si sapeva che il Gruppo dei
Socialisti e dei Democratici avrebbe proposto Martin Schulz mentre i Popolari
avevano l’ex premier lussemburghese Jean-Claude Junker. Ed è proprio questi che
dovrebbe essere indicato dal Consiglio al Parlamento per la guida delle
Commissione, essendo i Popolari maggioranza in Parlamento -seppur di stretta
misura. Ma qui emerge il vecchio vizio e paradosso del metodo intergovernativo:
il leader conservatore britannico Cameron, uscito sconfitto dalle urne che
hanno invece premiato il partito anti-europeista dell’Ukip, pone il veto
proprio a Junker –ricordiamolo, conservatore anche lui- accusato di … eccessivo
europeismo. Le manovre e i negoziati in corso, che si preannunciano molto
lunghi in quanto riguardano sia il Consiglio Europeo ( e quindi i capi di stato
e di governo che proveranno a formulare un altro nome o a trovare altri e
precari equilibri) sia il Parlamento stesso (con Schulz che tenta di ottenere
una maggioranza “trasversale”) se da un lato sono indicatori di uno stato di
confusione e di ipocrisia politica -specie della destra conservatrice-
dall’altro incarnano lo scontro sul modello di governance europea.
Sul primo punto, appare evidente l’incoerenza dell’accusa di poca
democraticità rivolta come un refain dal Primo Ministro inglese, quando
è lo stesso Cameron a opporsi alla supremazia del Parlamento (quindi dell’unico
organo eletto direttamente dai cittadini europei) per propri fini
elettoralistici. Cameron cerca infatti di competere con l’Ukip sul piano dell’euroscetticismo
alle prossime elezioni nazionali, con lo slogan di una UE “minima” in cui la Gran Bretagna possa
ottenere i maggiori risultati con i minori oneri. Ma una scelta così miope si
rivelerà alla lunga controproducente: come un cane che si morde la coda,
continuare a indebolire la democrazia delle istituzioni non farà che
allontanare i cittadini –in questo caso i cittadini britannici- dai processi
decisionali europei.
E’ un caso emblematico del resto, che ha fatto emergere tutta la sua
perversa natura proprio il 25 Maggio. I paesi che hanno scaricato sulle
istituzioni europee i fallimenti delle proprie politiche nazionali (vedi ancora
la Francia e la Gran Bretagna) hanno visto il trionfo di partiti anti-sistema per
cui è stato gioco facile trovare nell’Europa il capro espiatorio per i mali
nazionali -veri o presunti che siano. Con l’effetto opposto però che queste
forze avranno maggior peso proprio a livello nazionale che non su quello
europeo, su cui invece si prefissavano di agire. D’altro canto, i paesi
virtuosi che sono riusciti a trarre dall’Europa slancio e supporto anche per
fattive politiche nazionali ( quei famosi fondi strutturali che quando spesi e
spesi bene sono in grado di fare la differenza anche sul PIL) hanno premiato
quei partiti propositivi intenzionati a continuare il loro all’interno dell’Unione
-magari anche per cambiarla.
Questo “piccolo dramma” della nomina del Presidente della Commissione ci
riporta al vero dibattito sul modello di Europa che avremo nei prossimi 5 anni.
Infatti, si sono ventilati ipotesi di compromesso da togliere il sonno a quanti
auspicano che al voto europeo corrisponda una coerente risposta politica da parte
dei leaders degli stati membri. Si parla invece di una possibile candidatura di
Christine Lagarde, attuale Presidente del FMI e già “delfina” dell’ex presidente
francese UMP (destra) Sarkozy. Una scelta che non solo sarebbe completamente
all’opposto del principio di democrazia e di supremazia del parlamento, ma che offrirebbe
anche un segnale di reazione rispetto alle richieste di cambiamento espresse con
tanta drammaticità da queste elezioni.
E’ ovvio infatti come la politica del rigore propugnata dalla cosiddetta
“Troika” ( di cui la Lagarde è a tutti gli effetti l’incarnazione) sia stata
sonoramente bocciata dal voto dei cittadini europei, e non solo di quei paesi PIGS
(acronimo alquanto dispregiativo per designare gli stati fino a ieri a rischio default
e cioè Portogallo, Italia, Grecia e Spagna).
A confutare il “dogma” del fiscal
compact sono oggi economisti e studiosi di
quei paesi -come la Germania- da cui l’austerità ha preso le mosse. Del resto,
non ci voleva molto a sbugiardare le contraddizioni di un rigore pronto a
salvare le banche ma “spietato” nel tagliare servizi essenziali alla
collettività. Un gruppo di ricercatori franco-tedeschi, riuniti attorno al think
tank “Glienicke group” ha elaborato una sorta di manifesto per una “Nuova
Europa” più democratica nella gestione macroeconomica e soprattutto più equa. Come
evidenziato da uno dei maggiori economisti contemporanei, il francese Thomas Piketty,
il fallimento delle politiche neo-liberiste applicate allo spazio monetario
europeo è sotto gli occhi di tutti: che senso ha infatti avere una valuta
comune (l’Euro) quando in realtà persistono 18 debiti pubblici diversi? Tanto
più che mancano strumenti economici,
fiscali e di budget comuni in grado di evitare i danni che le speculazioni
finanziarie mietono nelle economie nazionali.
Per Piketty, come per i fautori di una “ristrutturazione” più democratica e
responsabile delle istituzioni europee occorrerebbe partire proprio dal “falso”
problema del debito: falso perché così come divulgato è stato solo funzionale
all’implementazione di politiche economiche restrittive e dannose. La soluzione
proposta è quella –non nuova in realtà, ma mai seriamente affrontata- di
mettere in comune anche il debito degli stati membri, in modo da bloccare le
speculazioni sui singoli tassi di
interesse che altrimenti continuerebbero all’infinito. Al contempo si
creerebbe un nuovo organo comunitario (Piketty lo definisce un “European
Chamber”: una Camera Europea) parallelo al Parlamento Europeo e composto da
parlamentari nazionali avente il compito di applicare le giuste prerogative
monetarie sull’Eurozona. Prerogative per altro perse proprio con l’introduzione
dell’Euro. Queste ed altre misure (come l’introduzione di una tassazione comune
sulle Imposte di Società dalle cui rendite andare a finanziare il budget
europeo) danno il segno di un’alternativa possibile -ed anzi auspicabile- agli
anni di crisi economica e di deficit democratico che stiamo ancora vivendo.
Lo spartiacque che ha segnato quest’elezione europea e su cui si
confrontano le due “visioni” sul futuro dell’Unione è proprio questo: da un
lato, la “vecchia Europa” del trattato di stabilità, del direttorio della
Germania e della “Troika”. Dall’altro un modello di tipo keynesiano, che punta
sullo sviluppo e sulla crescita e che si riconosce in una visione federalista
di Europa. I cittadini europei hanno dimostrato, con il loro voto di aver
scelto in che direzione andare: ora c’è da sperare che anche i nostri leaders si
dimostrino altrettanto perspicaci.
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