Le Unioni Civili sono tornate ad occupare un posto di primo piano nel
dibattito politico italiano. Il neo-segretario PD Matteo Renzi le ha inserite
come le priorità, assieme alla legge elettorale, alla riforma del mercato del
lavoro (il “job act”) e allo ius solis che il governo Letta dovrebbe affrontare
da qui alla scadenza della legislatura (2014?2015?).
Nella storia recente le unioni civili sono diventate, loro malgrado, un
“ever green” del dibattito nazionale, apparse sulla scena con la stessa
velocità con cui normalmente vengono poi dimenticate. Ogni volta con un nome
diverso: Pacs, Dico, DiDoRe… Sigle bislacche, dal suono quasi bambinesco – come
del resto Tarsu, Tuc, Trise- che dissimulano nella scioglievolezza del fonema
tutta la complessità delle realtà che sono chiamate a regolare.
Quello delle unioni civili è un tema molto serio e bene ha fatto Renzi a
riproporlo con urgenza, cercando in
questo modo di recuperare un ritardo inaccettabile della politica
rispetto all’evolversi dei costumi e dei modelli sociali.
L’Unione Europea, già nel 1994 raccomandava che alle coppie non sposate venissero
riconosciuti pari diritti all’interno degli ordinamenti statali.
Raccomandazione ribadita e articolata più recentemente, nel 2000 e nel 2003 dal
Parlamento Europeo che sancisce come le coppie monoparentali e non sposate
-anche omosessuali- debbano ottenere pari dignità rispetto alle coppie
tradizionali “in particolare in materia di legislazione fiscale, regime
patrimoniale e diritti sociali", sollecitando gli stati membri ad attuare
quelle integrazioni legislative per riformare il diritto matrimoniale in tal
senso.
In molti paesi, non solo europei, il diritto non è stato indifferente
all’evolversi dei costumi e senza aspettare i pronunciamenti della UE (come nel
caso dell’Olanda o della Danimarca) si è ricorso a degli specifici strumenti
normativi che riconoscono e disciplinano i diritti e i doveri di quelle coppie
che non vogliano convogliare a nozze - o che non possano, come appunto le
coppie omosessuali.
L’Italia è uno dei pochi paesi dell’Unione Europea- assieme a Slovacchia,
Grecia, Cipro, Estonia e Romania- che non prevede alcun tipo di riconoscimento
alle coppie more uxorio (le cosi dette “coppie di fatto”) siano esse
eterosessuali o omosessuali. Se la realtà di queste convivenze non è certo
nuova ed ha avuto anche nella storia politica esempi lampanti (Togliatti e
Nilde Iotti) è solo negli ultimi 20 anni che la materia è emersa dalla sfera
dell’intimità per reclamare la dimensione sociale e civile che invece merita.
Del resto, per comprendere come l’istituto del matrimonio oggi sia stato
fortemente rivalutato nella sua valenza culturale, sociale, financo di
“ammortizzatore sociale” basta studiare i dati pubblicati dall’Istat sul numero
dei matrimoni in Italia, che nel 2012 sono stati 207.138 contro i circa 419.000
del 1972. Un calo del 48%. A fronte di
questa “sfiducia” sono molti gli italiani e le italiane che preferiscono o
semplicemente si ritrovano a vivere modelli di convivenza e di famiglia “nuovi”.
Il fatto che in Italia non esista un riconoscimento legislativo di questo tipo di
unione non consente di disporre di dati certi sul loro numero. Ci si basa
quindi solo sulle rilevazione a campione. O sui registri delle unioni civili,
unica forma di riconoscimento – spesso solo simbolico- messo a disposizione dai
comuni più volenterosi. Secondo Marco Volante, presidente della Linfa - la lega
italiana nuove famiglie- sono circa 2 milioni e mezzo gli italiani che vivono
in forme di famiglia altra rispetto a quella tradizionale.
A fronte di un cambiamento importante nello stile di vita di milioni di
italiani ciò che colpisce sono le giustificazioni con cui la politica si
intestardisce a non volere vedere in faccia la realtà. Realtà a cui persino la Chiesa oggi, grazie a
un Papa come Francesco sembra guardare con maggiore apertura.
D’altronde, come spesso accade in Italia, una sentenza della corte di
cassazione – la 4184- è recentemente
intervenuta (Marzo 2012) sull’argomento: sancendo come i diritti di coppie
omosessuali devono essere omologati a quelle delle coppie sposate, sollecitando
il parlamento a colmare al più presto tale lacuna.
La posizione dei partiti più conservatori, recentemente rispolverato da
Alfano per chiudere alle proposte di Renzi- si basa generalmente su due
assiomi: il primo è che, “in tempi di crisi” il governo dovrebbe concentrarsi quasi
esclusivamente sull’economia e il risanamento; il secondo è che su “temi etici”
come quello delle unioni civili si comprometterebbe l’unità dell’istituto
familiare, aprendo di fatto alle nozze gay. Sul primo punto, si potrebbe
rispondere che i vari ministeri dell’integrazione, dell’immigrazione, della
cultura e della sanità, per dire, non avrebbero allora ragione di esistere.
Potremmo anzi chiuderli, in un’ottica di spending review, con grande
vantaggio per l’erario. Ovviamente, non è così: l’azione di governo non può
sostanziarsi solo nei temi economici e lasciare fuori tutti gli altri ambiti
della vita dei cittadini in cui la politica è chiamata ad intervenire.
Anche quello dei “temi etici” è, a ben vedere, un finto problema. Giacché non si dibatte qui su argomenti che
intaccano direttamente la vita umana – come la fecondazione assistita,
l’accanimento terapeutico o l’eutanasia- quello sulle unioni civili dovrebbe
sfuggire a un’etichettatura tanto arbitraria. A parte che non c’è cosa più
etica che espandere il bacino dei diritti godibili dagli individui. Ma, oltre a
questa falsa premessa, neppure un giusnaturista potrebbe spiegare in che modo
l’istituzione di unioni civili rappresenterebbe una minaccia alla “famiglia
tradizionale”. Giacché nessun matrimonio verrebbe sciolto e nessun coniuge
costretto a sposarsi con un partner dello stesso sesso, l’esistenza di unioni
civili avrebbe solo effetti positivi: quelli appunto di consentire a individui (soprattutto se omosessuali che quindi in
Italia non possono sposarsi) di accedere alle prerogative – se non di tutte
almeno in parte- proprie delle coppie sposate. Unioni civili che, ribadiamolo,
non sono matrimoni gay.
Ancora ieri Alfano affermava di non comprendere come le eventuali unioni
civili potrebbero differire dai matrimoni civili, paventando che le due cose
avrebbero lo stesso significato. Un paragone surrettiziamente proposto, giacché
le due cose sono, da un punto di vista giuridico e legislativo, profondamente
diverse. Le unioni civili, secondo la formulazione che ogni Stato elabora,
possono essere anche atti di diritto privatistico, siglati presso un notaio,
che possono prevedere la presenza o meno di testimoni. E d’altronde, almeno per
gli omosessuali, mancherebbe la clausola significante che in ogni matrimonio è
quella del mantenimento della prole. Se Alfano si confonde tra matrimoni e
unioni civili, si regolarizzino allora le unioni civili attraverso la
coabitazione registrata, che permette alla coppia di acquisire gradualmente i
diritti civili dopo un determinato periodo di coabitazione. Del resto, i
modelli di paragone non mancano. Si faccia come la Germania, dove inizialmente
i diritti e i doveri della coppia non equiparavano a tutti gli effetti la
convivenza al matrimonio: è equiparata dal
punto di vista contributivo ed assistenziale e non lo è nel caso della
filiazione e della genitorialità. O come in Irlanda dove si prevede la coabitazione,
proprietà della casa, agevolazioni fiscali, successione, eredità, immigrazione,
senza però introdurre la possibilità di adozione dei figli. Inoltre, l’evoluzione del diritto può
cambiare, nel senso che non è necessario prevedere un istituto delle unioni
civile nella sua accezione più “larga”: si può iniziare con una legislazione
minima o “light”- come piacerebbe chiamarla a Matteo Renzi- che contenga quelle
condizioni basilari per non svuotare completamente le unioni del proprio valore
giuridico e simbolico (come il regime patrimoniale, la reversibilità delle
pensioni, la possibilità di ereditare etc.) e al contempo ne tenga fuori altri (come
gli affidi o le adozioni). In tal modo non si urterebbe la sensibilità delle
parti politiche più conservatrici, se è questa la preoccupazione. C’è da
sperare che, una volta metabolizzata l’esistenza delle nove unioni, si possa
passare ad estendere i contenuti di una tale disciplina.
Spesso i detrattori delle unioni civili ribadiscono che ai fini
provvidenziali o testamentari – ad esempio- non è necessario che lo Stato
riconosca l’unione, essendo due adulti intitolati a disporre a piacimento dei
loro beni. Ma non è così, giacché tra
conviventi non sussiste nessun diritto alla successione. E’ vero che ognuno
potrebbe disporre presso un notaio un lascito al proprio partner, ma in questo
caso, l’eventuale “legittima” reclamata da un parente avrebbe priorità su quelle
stesse disposizioni testamentarie, mentre al partner rimarrebbe la sola quota
“disponibile”. Stortura che un’unione civile potrebbe sanare. E questo si
applicherebbe anche alla reversibilità delle pensioni, come alle visite in
ospedale, alla cura dei figli già avuti, e a ogni altro aspetto che regola la
vita di coppia in un matrimonio riconosciuto.
E’ vero: oggi la politica italiana ha tante priorità e molti sono i gravi
problemi a cui il governo è chiamato a rispondere, con urgenza. Ma non si può,
in un paese moderno e democratico come l’Italia, strumentalizzare l’emergenza
dell’attuale crisi per negare un problema che tocca la dignità di milioni di
persone, donne, uomini e bambini; o peggio ancora, negare l’estensione dei
diritti civili con la scusa di una finta morale. La politica, anche su questo
campo, oggi si gioca la faccia.
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