Chi ha memoria storica non potrà
fare a meno di comparare l’atmosfera di queste ultime elezioni israeliane con
quelle del 1996 che inaugurarono la fortunata serie (ben 4) di premiership per
un semi-sconosciuto Benjamin Netanyahu. Allora -era il 29 Maggio- Israele andò a
dormire con la convinzione che Shimon Peres sarebbe stato il prossimo Primo
Ministro per poi svegliarsi con la sorpresa dell’elezione del giovane e
agguerrito capo del Likud.
Anche la notte del 17 Marzo
scorso gli exit polls davano un seppur risicato vantaggio al duo
Livni-Herzog del “Blocco Sionista”, una colazione di centro-sinistra
alternativa al Likud e alla compagine di centro-destra che ha governato Israele
negli ultimi 6 anni. Ma il 18 mattina i risultati
erano già definitivi: il Likud otteneva 30 seggi (1 in meno di due anni fa)
mentre il Blocco Sionista 24. Sebbene Netanyahu non abbia ottenuto il risultato
plebiscitario che sperava- e cha l’aveva indotto ad proclamare le elezioni
anticipate- può rincuorarsi di una salda presa sul potere e sull’agenda
politica Israeliani.
Non si sono realizzate le condizioni
di una svolta tanto sperata da quanti vedevano nella premiership di Netanyahu
un fattore di stallo per Israele, tanto sul fronte interno che su quello
internazionale. Non che l’opposizione al
Likud in questi anni abbia brillato per lungimiranza politica o per compattezza
programmatica. La Sinistra in quanto tale è ben poca cosa in Israele,
rappresentata effettivamente da un partito –il Meretz, dal pur glorioso
passato, legato soprattutto all’auge degli accordi di Oslo- ma oggi ridotto al
lumicino (con appena 5 seggi).
Il Partito Laburista sconta
tutt’ora una profonda crisi d’identità frutto dei profondi mutamenti genetici
occorsi nell’elettorato –e nella popolazione d’Israele- a partire dagli anni novanta. Da quando cioè l’afflusso di oltre
un milione e mezzo di nuovi olim (migranti)
dalle repubbliche ex-sovietiche ha spostato l’asse dell’elettorato su un campo
politico poco o per niente ideologizzato, tendenzialmente favorevole agli
insediamenti nelle colonie e per nulla sensibile al fascino del grande ethos
nazionale di cui fino ad allora era
depositaria la leadership laburista di
origine askenazita. Né è stato
determinante il prestigio del suo nuovo, giovane leader – Isaac Herzog- che, di
fatti, ha ritenuto necessario un apparentamento con l’ex-ministro della
Giustizia Tzipi Livni, fondatrice di un suo proprio partito- Hatnuah. Il
Partito Laburista ha puntato la campagna elettorale su un tema di fondamentale importanza per lo Stato
ebraico: cioè il crescente squilibrio sociale tra ricchi e poveri e
sull’eccessivo costo della vita.
Sebbene sia uscito pressoché
illeso dalla crisi bancaria ed economica del 2008, confermandosi uno
straordinario hub di innovazione tecnologica e di stabilità finanziaria, Israele
è uno dei paesi in cui maggiore è il disequilibrio nella distribuzione del
reddito tra i paesi industrializzati. Come dimostrano i dati prodotti dal Luxembourg
Income Studies (che compara i dati micro-economici e di reddito tra diversi
paesi) il numero di coloro che vivono al di sotto del reddito nazionale medio è
più che raddoppiato in dieci anni (dal 10,2% nel 1992 al 20,5% nel 2002)
mentre, come ricordava il columnist New York Times Paul Krugman, sono circa 20
le famiglie israeliane le cui aziende detengono la metà del valore totale delle
azioni quotate in borsa. Quest’oligarchia economica è soprattutto frutto di
quel processo di liberalizzazioni, fortemente voluto dal Likud e dal suo
ministro dell’economia -proprio Netanyahu- che, nei primi anni del 2000,
affermava di voler fare di Israele una
sorta di “Dubai del mediterraneo”. In parte riuscendoci, il modello di sviluppo
Israeliano non ha tenuto tuttavia conto dei forti costi sociali difficili da
digerire per una società dalla forte vocazione egualitaria (dopotutto il
modello del Kibbutz di ispirazione socialista rimane uno dei totem del Sionismo
del 3 millennio). Un tale squilibrio ha
portato, nell’estate del 2011 a forti proteste di piazza che hanno scosso molto
l’opinione pubblica e chiamato a raccolta i partiti di centro-sinistra per
analizzare e riformulare sulla base delle nuove rivendicazioni la loro agenda
politica.
In tutto questo, Benjamin
Netanyahu è stato molto abile a sfruttare a proprio vantaggio le preoccupazioni
suscitate in patria dalle grandi crisi regionali (il nucleare iraniano; la
crisi siriana; l’avanzata dell’IS) per offuscare l’impatto degli squilibri
economici. In questo modo si è proposto al suo elettorato come l’uomo forte in
grado di difendere Israele dalle minacce-reali o presunte- di un vicinato
ostile. Una posizione espressa dal più alto podio della politica americana (il
Congresso) in cui Netanyahu - a detta di molti osservatori- ha esacerbato di
molto i rapporti con l’amministrazione democratica americana pur di ribadire,
ad uso e consumo dell’elettorato
israeliano ( e forse puntando su una prossima sconfitta dei democratici alle
presidenziali del 2016) la sua avversione ai negoziati sul nucleare iraniano. Una
sorta di amara ironia per chi era riuscito, nelle precedenti tornate
elettorali, a imporsi sui temi della crescita e dello sviluppo economici a
scapito degli altrettanto urgenti problemi internazionali: primo fra tutti la
pace con i Palestinesi.
Su questo fronte, l’unica
autorevole voce nel panorama politico israeliano che ancora ribadisce l’urgenza
di riprendere il dialogo con l’ANP appare quella di Tzipi Livni, che proprio su
questo dossier, in disaccordo con governo, ne era fuoriuscita nel Dicembre
dello scorso anno. Che il processo di
pace non rappresenti per Netanyahu una priorità politica non è mai stato un
mistero. Eppure, almeno a parole il falco del Likud -che sulla questione del
disimpegno da Gaza nel 2005 aveva provocato una crisi di governo con l’allora
Primo Ministro Ariel Sharon (che invece quel ritiro aveva fortemente voluto) – nel
2009 aveva stupito il mondo con il suo famoso discorso all’Università Bar Ilan
in cui si diceva pronto a lavorare per la nascita di uno Stato Palestinese,
secondo lo spirito dei “due stati per due popoli”. Ovviamente, ciò non ha
impedito il moltiplicarsi delle costruzioni nelle colonie e i negoziati di
pace, riaperti nel 2013 sotto i buoni uffici del Segretario di Stato americano
John Kerry sono da allora in un binario morto…
Non stupisce dunque che, nel
tentativo di erodere la soglia sempre più sottile che lo separava dal Blocco
Sionista, Netanyahu si sia spinto a dichiarare che, con lui Primo Ministro, uno
Stato Palestinese non vedrebbe mai la luce. Oggi, ad elezione riconfermata, Netanyahu
è tornato su quell’esternazione, riformulandola in chiave più possibilista. E
tuttavia, se così non fosse dovremmo registrare un drammatico cambiamento di
paradigma nell’approccio al processo di pace: se fino a qualche mese fa il
Likud vedeva nell’allora Presidente Peres, un autorevole argine alle derive
anti-negoziali del primo Ministro, oggi entrambe le guide monocratiche dello
stato (il Presidente d’Israele Reuven Rivlin e il Primo Minsitro Netanyahu) sarebbero
dichiaratamente per una soluzione uni-nazionale al problema palestinese. Una soluzione rischiosissima che farebbe
espoldere la contraddizione di uno Stato Ebraico e democratico che avalla a sé
il governo dei palestinesi nella Cisgiordania e a Gaza. Un tale scenario non farebbe
che spingere sempre più la leadership palestinese ad intraprendere la strada
unilaterale dell’ONU e della Corte Penale Internazionale (cui già nel prossimo
Novembre, a detta del negoziatore palestinese Muhammed Erekat si vorrebbe
trascinare Israele per crimini di guerra). Inoltre ciò rappresenterebbe
gioco-facile per i movimenti di boicottaggio di Israele e contribuirebbe a isolare ulteriormente lo
Stato ebraico sulla scena internazionale.
E’ probabile che, dismessi i toni
accesi della campagna elettorale, nel governo israeliano -qualunque forma esso
assumerà- si tornerà a parlare con il linguaggio del pragmatismo. Specie se,
come già lasciato trapelare dall’amministrazione Obama, l’America eserciterà
con maggiore incisività le sue capacità di persuasione sull’ormai scomodo
alleato Mediorientale. E tuttavia è un fatto che oggi Netanyahu sponsorizzi gli
strati più oltranzisti della società israeliana, dai coloni ai gruppi religiosi,
a cui il primo Ministro deve la sua quarta rielezione e che difficilmente si
lasceranno persuadere dal linguaggio della realpolitik. Un dilemma per uscire dal quale Netanyahu
dovrà ancora una volta dare prova di tutta la sua scaltrezza.