Introduzione
Negli anni Sessanta l’ideologo islamista egiziano Sayyid Qutb definiva con il termine “nuovi Faraoni” quei leader laici della Umma Islamica che governavano
contro i precetti della vera fede musulmana, perpetuando così la
condizione di “empietà ed ignoranza” (jahilylya) propria del mondo arabo
prima della venuta del Profeta (Kramer, 1997). Gli strali di Qutb, così come
degli altri teorici dello Stato islamico, da al-Banna prima di lui a
Mawdudi fino a Komeini- si scagliavano contro i modelli culturali di matrice illuministico-europea -con il loro corollario di laicità e divisione dei poteri- ma anche contro il nazionalismo e più in
generale contro ogni sistema che non rientrasse nella rielaborazione teorica e pratica
dell’Islam politico.
L’esperienza storica ha individuato il successo dell’Islam politico solo in
alcuni paesi (l’Iran di Komeini, il Sudan di al-Bashir, l’Afganistan dei
Talebani) e solo in un periodo di tempo relativamente limitato (Kepel, 2000).
Il caso egiziano, culla dei principali ideologi dell’Islamismo contemporaneo
(al-Banna e Qutb) ha vissuto momenti convulsi ma fino ad ora non decisivi per
l’attecchimento dell’Islam politico in tale paese. Dagli anni ‘50 del secolo
scorso la Fratellanza musulmana venne repressa (Qutb fu giustiziato nel 1966
per ordine di Nasser), l’islamismo “imbrigliato” in un istituto legalitario e
controllato all'interno dell’Università al-Azhar e financo timidamente cooptato
con Sadat (Lia, 1998). Per quanto lo stesso Sadat sarebbe poi stato assassinato in un
eclatante attentato nel 1981 dai seguaci di Qutb, la rivoluzione islamica da
loro auspicata non avrà però la forza sociale di attecchire. Infine, l'ultimo
capitolo delle vicende dell’Islam radicale in Egitto riguarda le Primavere
Arabe del 2013 che hanno portato al governo, nelle prime elezioni libere del paese,
un presidente membro dei Fratelli Musulmani, deposto poco tempo dopo dal
generale Al-Sisi (Cavatorta, 2016).
Rispetto alle convulsioni egiziane, l'Arabia saudita ha da sempre
rappresentato un “porto sicuro” per quei dissidenti islamisti in fuga dalla
repressione dei governi laici o socialisti e alla ricerca di un percorso di
vita e di fede al riparo dell’ortodossia wahhabita (Vassilev, 2000). Il Regno
saudita è infatti intrinsecamente legato alla visione rigorista dell’Islam
(quella del riformista Muhammad Ibn Wahhab vissuto nel XVIII secolo) da cui
trae la propria legittimità politica. Tale unione (simboleggiata nella bandiera
nazionale dalla spada dei Saud e dal Libro santo) ha contraddistinto l'intera
storia del paese, l'unico della Umma Islamica in cui gli Ulema hanno un potere
istituzionale delle cui fatwa il regno si serve per sancire il proprio agire. Scelte politiche non sempre condivise dai movimenti più
fondamentalisti dell’Islam sunnita. Non a caso il Regno è puntellato
esternamente dalla storica alleanza con gli Stati Uniti (e prima ancora con
l'Inghilterra) che ha salvaguardato il fondamentale ruolo geopolitico del Paese
quale principale esportatore di petrolio (Gause, 1998). Proprio questa alleanza
rappresenta però il tallone d'Achille del “patto sociale” (o per meglio dire
religioso) con la galassia di movimenti rigoristi islamici attivi nel Regno.
L'arrivo di truppe americane in Arabia Saudita in occasione della Prima Guerra
del Golfo ha rappresentato la prima causa di dissenso dei
movimenti salafiti (raggruppati nel movimento Sahwa che attecchirà a
partire dagli anni ‘80) contro il regime che autorizzava l’arrivo di “infedeli
nel Sacro Suolo dell’Islam”. Dal canto suo il potere ha cercato di
stemperare gli attriti con gli ulema restii ad accettare l'alleanza con il “Satana
americano”, adottando alcune politiche in ambito sociale e religioso orientate a un'osservanza rigorosa dei codici di comportamento islamici:
stretta sulle libertà civili, sull’autonomia delle donne e sull’ortodossia
religiosa. Tuttavia la modernità e soprattutto lo sfruttamento dei giacimenti
petroliferi non sono passati in maniera anodina per uno Stato che si ritiene
indefesso protettore di una versione monolitica e particolarmente rigida
dell'Islam.
MBS
A cambiare il volto dell’anchilosata monarchia saudita, spesso vittima al
suo interno di un complicato sistema di successioni e di intrighi che ne
limitano le prospettive decisionali nel medio-lungo periodo, è intervenuto nel
2017 il giovane principe Mohammad bin Salman (classe 1985) il quale proprio
quell'anno è stato nominato erede al trono dal padre Salman che, anziano e
malato, nominalmente detiene tuttora il trono. Accumulando importanti cariche
(Ministro della Difesa; Presidente del Consiglio per gli Affari Economici e di
Sviluppo; Vice-Primo Ministro) è bin Salman l’effettivo detentore del potere
assoluto in Arabia Saudita presentandosi così come uno dei più giovani
governanti sulla terra. Cosmopolita, formatosi all'estero e con una forte
ammirazione per gli Stati Uniti, Mohammad bin Salman (meglio conosciuto con
l’acronimo MBS) rappresenta una novità assoluta per la gerontocratica struttura
di potere saudita (Hubbard, 2020). La sua salita al potere non è stata esente
da “scossoni” che sembrano però averne garantito la stabilità, attraverso
metodi spesso controversi (dietro alla reclusione dorata di molti esponenti
dell'élite nazionale all’interno di un hotel di lusso a Ryad, ufficialmente per
motivi di corruzione, molti hanno visto una resa dei conti del giovane principe
nei confronti dei suoi oppositori interni) e senza tanti scrupoli nel liquidare
la dissidenza (esempio ne è il caso Khashogi).
Nel chiaroscuro del panorama politico saudita occorre pure rilevare il
deciso passo di cambio voluto da MBS nell’intraprendere un ambiziosissimo piano
di modernizzazione che si muove su due piani paralleli: da un lato l’imperativo
di diversificare la produzione nazionale cercando di emancipare il Paese dallo
status Rentier State legato al ruolo
di primo esportatore mondiale di petrolio. Contemporaneamente, e in parte
funzionale al primo obiettivo, modernizzare il Paese anche in termini di
costumi e di una maggiore “liberalità” di modo da renderlo effettivamente un
polo d'attrazione per gli investitori internazionali.
E proprio in questa doppia ottica si inserisce il discorso in chiave
nazionalista che scombussola i pilastri dottrinali su cui si è sempre retta la
monarchia saudita. Il concetto di nazionalismo (watraniyya) era stato
già in parte sdoganato dallo zio di MBS nel 2003. (Champio, 2003). Fu re Abdullah,
allora principe ereditario, a istituire la Giornata Nazionale del Regno e
fu sempre lui ad aprire, seppur timidamente, ad altre correnti dell'Islam
saudita attraverso un’apposita assemblea che accolse financo la minoranza
sciita (da sempre considerata “eretica” dal sunnismo specie se di matrice
wahhabita). Oggi il concetto di nazionalismo propugnato da MBS si arricchisce
di nuovi importanti significati, specie alla luce dei rivolgimenti storici
intercorsi nell'ultimo decennio. In primo luogo le “Primavere arabe” hanno
rivelato tutti i rischi di un fenomeno che in ogni sua variante (dallo slancio
democratico all'opzione islamista) rappresenta un rischio concreto per gli
equilibri della monarchia saudita. Una risposta a quelle istanze doveva dunque
essere riformulata secondo un paradigma originale –e verticistico- in grado di
mobilitare consenso attorno alla casa reale senza rischiare di coinvolgere
passioni religiosi difficili da controllare. La lunga guerra allo Yemen poi,
che rappresenta uno dei maggiori disastri umanitari dei nostri giorni -e che per la famiglia reale si è rivelato un
costosissimo fallimento in termini strategici, economici e di immagine-
richiede un rinnovato incitamento all’orgoglio nazionale per continuare la
mobilitazione di una popolazione ormai stanca di un inutile e dannoso insuccesso
militare (vedi gli attacchi perpetrati dai ribelli Huthi alle raffinerie di
Aramco in suolo saudita).
Nazionalismo e Contemporaneità
Soprattutto, il richiamo alla watraniyya è strumentale al grandioso
piano di riforme volute da MDS che mira a fare dell'Arabia Saudita un polo
d’attrazione di investimenti internazionali, diversificando la propria economia
dalla dipendenza dal petrolio. Le ambizioni del giovane principe si sono concentrate
sul progetto “Vision 2030” con la costruzione di avvenieristiche città nel
deserto, hub di nuovi affari a marchio High-Tech
da costruire con investimenti privati. Tale intraprendenza e l’operazione di public relations che MBS ha strenuamente
promosso tanto all’estero quanto in casa non possono fare a meno di un puntello
ideologico che stemperi l’immagine reazionaria degli imam wahhabiti alla quale
la monarchia saudita è stata per lungo tempo associata. Per quanto lo slancio
del giovane principe sembrerebbe propizio a rilanciare il nuovo ruolo dell’Arabia
Saudita nel mutato scacchiere internazionale, MBS dovrà però fare i conti con
le conseguenza che tale “restyling” potrebbero avere sul piano sia sociale che
religioso.
Se negli anni ’80 i petroldollari hanno rappresentato un polo di attrazione
per migliaia di personale non qualificato proveniente da ogni parte del mondo
islamico e non solo, il drastico calo del prezzo del greggio rischia oggi di
scombussolare il delicato equilibrio sociale su cui si basa la legittimità del
regno (Gause, 1994). Triplicando il volume delle imposte dirette dal 5% al 15%
(in un regime fiscale, tipico dei “rentier state” che fino a poco tempo fa
quasi non conosceva tassazione) e bruciando miliardi di dollari con le minore
entrate petrolifere c'è il rischio concreto dell’emergere delle proteste delle
classi medie urbane, le quali sono sempre state al margine delle enormi
ricchezze derivanti dall’oro nero, appannaggio piuttosto dei ricchi tecnocrati e amministratori
statali, spesso membri della stessa famiglia reale. Peraltro, se fino ad oggi
il malcontento delle classi rurali di recente inurbamento ha potuto in qualche
modo essere catalizzato in una pratica religiosa e in una visione del mondo
consustanziali al regno (il Wahabismo) le aperture sociali e di costume inaugurate
da MBS, per quanto timide siano, rischiano di disintegrare pure quella Pax
religiosa che teneva “a bada” le classi più emarginate. La restrizione delle
prerogative dei mutawi’a (in
parte paragonabili ai pasdaran iraniani e incaricati di
sovrintendere all’applicazione della regole religiose nella vita quotidiana)
rischia di scontentare la parte più povera della popolazione di cui le milizie fanno
parte, e che trova in tale ruolo una valvola di sfogo alla propria frustrazione
socio-economica.
Le prese di posizione del principe ereditario vanno poi in alcuni casi
addirittura contro la sensibilità delle gerarchie wahhabite, come l’aver
accentuato l'importanza della Giornata Nazionale Saudita del 23 settembre (in
senso laico) provocando la ferma condanna dei religiosi. Indicativo di questo
nuovo Zaitgeist è pure lo slancio
adottato dal principe nel recuperare e valorizzare turisticamente siti
archeologici pre-islamici, cosa che fa rabbrividire i più estremi tra gli
islamisti iconoclasti che associano al periodo pre-islamico la condizione di jahilylya
(ignoranza pagana appunto). Più in generale è la retorica nazionalista che
sembra infiammare l'animo di MBS, in un discorso mai sentito prima, e che lo
spinge a indicare un preciso periodo storico (antecedente al 1979, data in cui
il legame tra il potere politico e quello religioso si rinsalda accentuando una
stretta nei costumi e nella moralità) come auspicabile punto di riferimento per
il regno del futuro.
La Spada e il Libro: un
rapporto difficile
D’altronde le fluttuazioni nei rapporti tra gerarchie ecclesiastiche e casa
regnante hanno contrassegnato la lunga storia saudita: quando il carisma dei
predicatori sovrastava quello dei regnanti erano loro a prevalere; né d’altro
canto, agni inizi degli anni ’20 del secolo scorso, il capostipite del regno
Abdul Aziz Saud ha esitato a sterminare i mujaheddin (Ikhwan)-supportato
dall'aviazione britannica- quando questi si rivelarono una minaccia per la
stabilità del potere (Kostiner, 1993). E fu proprio tra i clan i cui membri
militavano nell’Ikhwan decapitato di allora che emerse il commando di
estremisti che nel 1979 assalì la Grande Moschea della Mecca prendendone in
ostaggio i pellegrini. Anche in quella occasione la repressione fu spietata e
segnò un momento decisivo nella conflittuale dialettica tra monarchia e clero.
Clero che paradossalmente, propio a seguito di quel fatto così drammatico,
segna un punto a proprio favore: in cambio del rinnovato sostegno al re Khaled,
gli ulema si vedono riconosciuti ampi margini di agibilità in ambito educativo,
d’insegnamento e propagazione della fede, con radio e reti televisive loro
dedicati. Inoltre ottengono quella stretta nei costumi e nella moralità
pubblica che limita le libertà individuali -specie delle donne. E’ l’inizio
della Sahwa (letteralmente “il risveglio”), un periodo di grande
dinamismo nel campo religioso, impersonato da due carismatici ulema, Salman
al-Ouda e Safar al-Hawali, in cui il salafismo wahhabita riceve e rielabora il
contributo della fratellanza musulmana di matrice qutbista. Ed è proprio questo
il 1979 cui il giovane principe si riferisce nel suo auspicio a un ritorno ex-ante.
Tuttavia, i nuovi predicatori della Sahwa
saranno meno prudenti della maggioranza del clero wahhabita nel non urtarsi con
i sovrani, criticando l’”ignavia” degli ulema che li sostengono e denunciando
l’esercizio di una sovranità secolare che –a loro dire– non può sostituirsi a
quella divina. A queste diatribe di carattere dottrinario si aggiunge l'evento
-traumatico sotto molti aspetti- rappresentato dalla Prima Guerra del Golfo alla
quale l'Arabia Saudita partecipa. Non solo, ma autorizza la permanenza (che da
allora sarà stabile) di truppe americane sul proprio territorio. Tale scelta
segna una frattura nelle Sahwa, con
la “vecchia guardia” degli ulema wahhabiti che sancisce con due fatwa la
decisione del re, mentre le nuove generazioni di salafiti-qutbisti considerano
la presenza straniera sul “sacro suolo” niente meno che un’empietà. Oltre a
questi dissidenti, nelle persone di Al-Hawali e al Awda -che vengono subito
arrestati- molti salafisti ancora più radicalizzati danno vita ad azioni violente,
ad attentati e ad attacchi contro la presenza americana. Tra questi ultimi si
annovera Osama Bin Laden che proprio da allora dà inizio alla propria “Jihad”
contro “ebrei e nuovi crociati”(sic).
Conclusioni
Si può affermare che il percorso di MDB sia in effetti appena iniziato, e
come suggeriscono alcuni osservatori, il giovane principe ha il potenziale –sia
genetico che costituzionale- per regnare fino al 2070. Il modo in cui ha fin
qui gestito il potere -in un misto di crudeltà e aperture, modernità e
tradizione- sembrerebbe avvicinarlo alle figure degli assolutisti illuminati
dell'Europa del XVIII secolo. La grande incognita resta su come saprà reggersi su
un equilibrio molto esile tra modernizzazione e wahhabismo, e su come la base
sociale e islamica reagirà alle riforme annunciate. La “condanna” dell’oro nero,
in una congiuntura attuale particolarmente difficile e nell’urgenza di
affrancarsi dall’egemonia degli idrocarburi, necessita di una politica oculata
ma inderogabile, che il giovane principe sembra aver intrapreso. Non sarà
facile convincere chi fino ieri godeva degli enormi introiti legati al petrolio
a sobbarcarsi i costi della riconversione economica: l'imposizione fiscale, una
novità nei termini in cui viene oggi preannunciata e il calo di manodopera
straniera legata alle restrizioni del Covid-19
rischiano senz'altro di provocare il malcontento della classe
media urbana e di quella mercantile che hanno finora sostenuto la casa
regnante.
Il rischio concreto è che tale malcontento possa essere
strumentalizzato e cavalcato da gruppi radicali salafiti o da singoli religiosi
che non si piegano alla volontà della dinastia Saud. Se da un lato MBS sa di
poter contare sulla “docilità” del Consiglio degli Ulema, presieduto dalla
potente famiglia degli al-Sheikh (discendenti diretti di Muhammad Ibn Wahhab e
nominati dal monarca stesso) spazi di radicalismo esistono al di fuori del Consiglio,
come la storia del Sahwa ha
dimostrato. Proprio quegli ulema che hanno interiorizzato e integrato il
pensiero di Qutb, come Salman al-Awda o Safar al-Hawali che in passato si erano
trovati in rotta di collisione con il potere per poi “reintrare nei ranghi”,
sono oggi nuovamente sotto la scure di MBS che li ha fatti arrestare: al-Awda
perché si è rifiutato di sottoscrivere la fatwa
contro il Qatar e al-Hawali per essersi espresso a mezzo stampa contro il
principe stesso. E’ questo il preludio di un rinnovato scontro tra un ambizioso
giovane principe, un potenziale “nuovo faraone” da abbattere secondo la
retorica integralista, araldo di un inedito nazionalismo saudita da un
lato e una galassia islamista risoluta a ribadire l’egemonia dell’Islam
integralista dall’altro? Dall’esito di tale eventuale tenzone, in cui il primo
avrebbe tutto da perdere e la seconda tutto da guadagnare si gioca il destino
della monarchia saudita e potenzialmente, dell'intero Medio Oriente.