mercoledì 1 aprile 2015

La quarta volta del Sig. Netanyahu



Chi ha memoria storica non potrà fare a meno di comparare l’atmosfera di queste ultime elezioni israeliane con quelle del 1996 che inaugurarono la fortunata serie (ben 4) di premiership per un semi-sconosciuto Benjamin Netanyahu.  Allora -era il 29 Maggio- Israele andò a dormire con la convinzione che Shimon Peres sarebbe stato il prossimo Primo Ministro per poi svegliarsi con la sorpresa dell’elezione del giovane e agguerrito capo del Likud.
Anche la notte del 17 Marzo scorso gli exit polls davano un seppur risicato vantaggio al duo Livni-Herzog del “Blocco Sionista”, una colazione di centro-sinistra alternativa al Likud e alla compagine di centro-destra che ha governato Israele negli ultimi 6 anni.  Ma il 18 mattina i risultati erano già definitivi: il Likud otteneva 30 seggi (1 in meno di due anni fa) mentre il Blocco Sionista 24. Sebbene Netanyahu non abbia ottenuto il risultato plebiscitario che sperava- e cha l’aveva indotto ad proclamare le elezioni anticipate- può rincuorarsi di una salda presa sul potere e sull’agenda politica Israeliani.


Non si sono realizzate le condizioni di una svolta tanto sperata da quanti vedevano nella premiership di Netanyahu un fattore di stallo per Israele, tanto sul fronte interno che su quello internazionale.  Non che l’opposizione al Likud in questi anni abbia brillato per lungimiranza politica o per compattezza programmatica. La Sinistra in quanto tale è ben poca cosa in Israele, rappresentata effettivamente da un partito –il Meretz, dal pur glorioso passato, legato soprattutto all’auge degli accordi di Oslo- ma oggi ridotto al lumicino (con appena 5 seggi).
Il Partito Laburista sconta tutt’ora una profonda crisi d’identità frutto dei profondi mutamenti genetici occorsi nell’elettorato –e nella popolazione d’Israele- a partire dagli  anni novanta. Da quando cioè l’afflusso di oltre un milione e mezzo  di nuovi olim (migranti) dalle repubbliche ex-sovietiche ha spostato l’asse dell’elettorato su un campo politico poco o per niente ideologizzato, tendenzialmente favorevole agli insediamenti nelle colonie e per nulla sensibile al fascino del grande ethos nazionale di cui fino ad allora  era depositaria la  leadership laburista di origine askenazita.  Né è stato determinante il prestigio del suo nuovo, giovane leader – Isaac Herzog- che, di fatti, ha ritenuto necessario un apparentamento con l’ex-ministro della Giustizia Tzipi Livni, fondatrice di un suo proprio partito- Hatnuah. Il Partito Laburista ha puntato la campagna elettorale su un  tema di fondamentale importanza per lo Stato ebraico: cioè il crescente squilibrio sociale tra ricchi e poveri e sull’eccessivo costo della vita.
Sebbene sia uscito pressoché illeso dalla crisi bancaria ed economica del 2008, confermandosi uno straordinario hub di innovazione tecnologica e di stabilità finanziaria, Israele è uno dei paesi in cui maggiore è il disequilibrio nella distribuzione del reddito tra i paesi industrializzati. Come dimostrano i dati prodotti dal Luxembourg Income Studies (che compara i dati micro-economici e di reddito tra diversi paesi) il numero di coloro che vivono al di sotto del reddito nazionale medio è più che raddoppiato in dieci anni (dal 10,2% nel 1992 al 20,5% nel 2002) mentre, come ricordava il columnist New York Times Paul Krugman, sono circa 20 le famiglie israeliane le cui aziende detengono la metà del valore totale delle azioni quotate in borsa. Quest’oligarchia economica è soprattutto frutto di quel processo di liberalizzazioni, fortemente voluto dal Likud e dal suo ministro dell’economia -proprio Netanyahu- che, nei primi anni del 2000, affermava di  voler fare di Israele una sorta di “Dubai del mediterraneo”. In parte riuscendoci, il modello di sviluppo Israeliano non ha tenuto tuttavia conto dei forti costi sociali difficili da digerire per una società dalla forte vocazione egualitaria (dopotutto il modello del Kibbutz di ispirazione socialista rimane uno dei totem del Sionismo del 3 millennio).  Un tale squilibrio ha portato, nell’estate del 2011 a forti proteste di piazza che hanno scosso molto l’opinione pubblica e chiamato a raccolta i partiti di centro-sinistra per analizzare e riformulare sulla base delle nuove rivendicazioni la loro agenda politica. 


In tutto questo, Benjamin Netanyahu è stato molto abile a sfruttare a proprio vantaggio le preoccupazioni suscitate in patria dalle grandi crisi regionali (il nucleare iraniano; la crisi siriana; l’avanzata dell’IS) per offuscare l’impatto degli squilibri economici. In questo modo si è proposto al suo elettorato come l’uomo forte in grado di difendere Israele dalle minacce-reali o presunte- di un vicinato ostile. Una posizione espressa dal più alto podio della politica americana (il Congresso) in cui Netanyahu - a detta di molti osservatori- ha esacerbato di molto i rapporti con l’amministrazione democratica americana pur di ribadire, ad uso e  consumo dell’elettorato israeliano ( e forse puntando su una prossima sconfitta dei democratici alle presidenziali del 2016) la sua avversione ai negoziati sul nucleare iraniano. Una sorta di amara ironia per chi era riuscito, nelle precedenti tornate elettorali, a imporsi sui temi della crescita e dello sviluppo economici a scapito degli altrettanto urgenti problemi internazionali: primo fra tutti la pace con i Palestinesi.
Su questo fronte, l’unica autorevole voce nel panorama politico israeliano che ancora ribadisce l’urgenza di riprendere il dialogo con l’ANP appare quella di Tzipi Livni, che proprio su questo dossier, in disaccordo con governo, ne era fuoriuscita nel Dicembre dello scorso anno.  Che il processo di pace non rappresenti per Netanyahu una priorità politica non è mai stato un mistero. Eppure, almeno a parole il falco del Likud -che sulla questione del disimpegno da Gaza nel 2005 aveva provocato una crisi di governo con l’allora Primo Ministro Ariel Sharon (che invece quel ritiro aveva fortemente voluto) – nel 2009 aveva stupito il mondo con il suo famoso discorso all’Università Bar Ilan in cui si diceva pronto a lavorare per la nascita di uno Stato Palestinese, secondo lo spirito dei “due stati per due popoli”. Ovviamente, ciò non ha impedito il moltiplicarsi delle costruzioni nelle colonie e i negoziati di pace, riaperti nel 2013 sotto i buoni uffici del Segretario di Stato americano John Kerry sono da allora in un binario morto…  

Non stupisce dunque che, nel tentativo di erodere la soglia sempre più sottile che lo separava dal Blocco Sionista, Netanyahu si sia spinto a dichiarare che, con lui Primo Ministro, uno Stato Palestinese non vedrebbe mai la luce. Oggi, ad elezione riconfermata, Netanyahu è tornato su quell’esternazione, riformulandola in chiave più possibilista. E tuttavia, se così non fosse dovremmo registrare un drammatico cambiamento di paradigma nell’approccio al processo di pace: se fino a qualche mese fa il Likud vedeva nell’allora Presidente Peres, un autorevole argine alle derive anti-negoziali del primo Ministro, oggi entrambe le guide monocratiche dello stato (il Presidente d’Israele Reuven Rivlin e il Primo Minsitro Netanyahu) sarebbero dichiaratamente per una soluzione uni-nazionale al problema palestinese.  Una soluzione rischiosissima che farebbe espoldere la contraddizione di uno Stato Ebraico e democratico che avalla a sé il governo dei palestinesi nella Cisgiordania e a Gaza. Un tale scenario non farebbe che spingere sempre più la leadership palestinese ad intraprendere la strada unilaterale dell’ONU e della Corte Penale Internazionale (cui già nel prossimo Novembre, a detta del negoziatore palestinese Muhammed Erekat si vorrebbe trascinare Israele per crimini di guerra). Inoltre ciò rappresenterebbe gioco-facile per i movimenti di boicottaggio di Israele e  contribuirebbe a isolare ulteriormente lo Stato ebraico sulla scena internazionale.
E’ probabile che, dismessi i toni accesi della campagna elettorale, nel governo israeliano -qualunque forma esso assumerà- si tornerà a parlare con il linguaggio del pragmatismo. Specie se, come già lasciato trapelare dall’amministrazione Obama, l’America eserciterà con maggiore incisività le sue capacità di persuasione sull’ormai scomodo alleato Mediorientale. E tuttavia è un fatto che oggi Netanyahu sponsorizzi gli strati più oltranzisti della società israeliana, dai coloni ai gruppi religiosi, a cui il primo Ministro deve la sua quarta rielezione e che difficilmente si lasceranno persuadere dal linguaggio della realpolitik.  Un dilemma per uscire dal quale Netanyahu dovrà ancora una volta dare prova di tutta la sua scaltrezza. 

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