lunedì 9 giugno 2014

L'Europa dei Leaders e quella dei Cittadini






Ad appena due settimane dagli esiti del voto europeo, che ha visto la netta affermazione del Partito Democratico nel nostro paese così come l’avanzata della destra xenofoba ed anti-europeista in importanti paesi dalla solida fede democratica (ed europeista), già si profilano due modelli -nettamente contrastanti-dell’Unione che sarà a partire da questa legislatura. Parlo di due modelli, anche se in effetti sarebbe più appropriato parlare di tre, se ci si attiene alle macro-tendenze politiche rappresentate nell’emiciclo del Parlamento di Strasburgo/Bruxelles: da un lato abbiamo il gruppo della destra conservatrice e dei Popolari che predilige il  metodo intergovernativo e che trova la sua espressione economica nel fiscal compact e nel rigore “alla tedesca”: questo è il gruppo emerso come maggioritario dalle urne il 25 Maggio; poi abbiamo un vasto blocco, che va dai Socialisti ai Liberali alla Sinistra europeista che vorrebbe una riforma in senso maggiormente democratico dell’intero impianto istituzionale dell’Unione e reclama politiche economiche di crescita svincolate dal debito pubblico. Infine abbiamo un eterogeneo blocco di partiti anti-europeisti, spesso populisti e xenofobi che si prefiggono il ritorno alle prerogative nazionali (nazionaliste?), la revisione dei trattati di Schengen, la fuoriuscita dall’Euro. Per quanto questa minoranza conti per circa un quarto del nuovo Parlamento – e rappresentino forze significative in paesi come la Francia e la Gran Bretagna – credo che il dibattito politico, economico e istituzionale rimarrà appannaggio dei primi due modelli che insieme rappresentano la vasta maggioranza dell’assemblea. 

Lo spunto per comprendere la drammaticità del dibattito è offerto dalla fase di transizione che l’Unione sta attraversando, con il rinnovo dei suoi organi monocratici quali la Commissione e il Consiglio. Sulla pressante richiesta di maggiore rappresentatività si decise, con il Trattato di Lisbona del 2007, che il Parlamento Europeo avrebbe avuto l’ultima parola sulla scelta della Commissione e del suo Presidente: certo, i governi potevano ancora proporre un “loro” candidato, ma questi doveva essere espressione della maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni europee. Così, ancor prima delle sedute del Consiglio Europeo post-elettorale, si sapeva che il Gruppo dei Socialisti e dei Democratici avrebbe proposto Martin Schulz mentre i Popolari avevano l’ex premier lussemburghese Jean-Claude Junker. Ed è proprio questi che dovrebbe essere indicato dal Consiglio al Parlamento per la guida delle Commissione, essendo i Popolari maggioranza in Parlamento -seppur di stretta misura. Ma qui emerge il vecchio vizio e paradosso del metodo intergovernativo: il leader conservatore britannico Cameron, uscito sconfitto dalle urne che hanno invece premiato il partito anti-europeista dell’Ukip, pone il veto proprio a Junker –ricordiamolo, conservatore anche lui- accusato di … eccessivo europeismo. Le manovre e i negoziati in corso, che si preannunciano molto lunghi in quanto riguardano sia il Consiglio Europeo ( e quindi i capi di stato e di governo che proveranno a formulare un altro nome o a trovare altri e precari equilibri) sia il Parlamento stesso (con Schulz che tenta di ottenere una maggioranza “trasversale”) se da un lato sono indicatori di uno stato di confusione e di ipocrisia politica -specie della destra conservatrice- dall’altro incarnano lo scontro sul modello di governance europea. 


Sul primo punto, appare evidente l’incoerenza dell’accusa di poca democraticità rivolta come un refain dal Primo Ministro inglese, quando è lo stesso Cameron a opporsi alla supremazia del Parlamento (quindi dell’unico organo eletto direttamente dai cittadini europei) per propri fini elettoralistici. Cameron cerca infatti di competere con l’Ukip sul piano dell’euroscetticismo alle prossime elezioni nazionali, con lo slogan di  una UE “minima” in cui la Gran Bretagna possa ottenere i maggiori risultati con i minori oneri. Ma una scelta così miope si rivelerà alla lunga controproducente: come un cane che si morde la coda, continuare a indebolire la democrazia delle istituzioni non farà che allontanare i cittadini –in questo caso i cittadini britannici- dai processi decisionali europei. 

E’ un caso emblematico del resto, che ha fatto emergere tutta la sua perversa natura proprio il 25 Maggio. I paesi che hanno scaricato sulle istituzioni europee i fallimenti delle proprie politiche nazionali (vedi ancora la Francia e la Gran Bretagna) hanno visto il trionfo di partiti anti-sistema per cui è stato gioco facile trovare nell’Europa il capro espiatorio per i mali nazionali -veri o presunti che siano. Con l’effetto opposto però che queste forze avranno maggior peso proprio a livello nazionale che non su quello europeo, su cui invece si prefissavano di agire. D’altro canto, i paesi virtuosi che sono riusciti a trarre dall’Europa slancio e supporto anche per fattive politiche nazionali ( quei famosi fondi strutturali che quando spesi e spesi bene sono in grado di fare la differenza anche sul PIL) hanno premiato quei partiti propositivi intenzionati a continuare il loro all’interno dell’Unione -magari anche per cambiarla. 

Questo “piccolo dramma” della nomina del Presidente della Commissione ci riporta al vero dibattito sul modello di Europa che avremo nei prossimi 5 anni. Infatti, si sono ventilati ipotesi di compromesso da togliere il sonno a quanti auspicano che al voto europeo corrisponda una coerente risposta politica da parte dei leaders degli stati membri. Si parla invece di una possibile candidatura di Christine Lagarde, attuale Presidente del FMI e già “delfina” dell’ex presidente francese UMP (destra) Sarkozy. Una scelta che non solo sarebbe completamente all’opposto del principio di democrazia e di supremazia del parlamento, ma che offrirebbe anche un segnale di reazione rispetto alle richieste di cambiamento espresse con tanta drammaticità da queste elezioni. 


E’ ovvio infatti come la politica del rigore propugnata dalla cosiddetta “Troika” ( di cui la Lagarde è a tutti gli effetti l’incarnazione) sia stata sonoramente bocciata dal voto dei cittadini europei, e non solo di quei paesi PIGS (acronimo alquanto dispregiativo per designare gli stati fino a ieri a rischio default e cioè Portogallo, Italia,  Grecia e Spagna). A confutare il  “dogma” del fiscal compact sono oggi economisti e studiosi  di quei paesi -come la Germania- da cui l’austerità ha preso le mosse. Del resto, non ci voleva molto a sbugiardare le contraddizioni di un rigore pronto a salvare le banche ma “spietato” nel tagliare servizi essenziali alla collettività. Un gruppo di ricercatori franco-tedeschi, riuniti attorno al think tank “Glienicke group” ha elaborato una sorta di manifesto per una “Nuova Europa” più democratica nella gestione macroeconomica e soprattutto più equa. Come evidenziato da uno dei maggiori economisti contemporanei, il francese Thomas Piketty, il fallimento delle politiche neo-liberiste applicate allo spazio monetario europeo è sotto gli occhi di tutti: che senso ha infatti avere una valuta comune (l’Euro) quando in realtà persistono 18 debiti pubblici diversi? Tanto più che mancano  strumenti economici, fiscali e di budget comuni in grado di evitare i danni che le speculazioni finanziarie mietono nelle economie nazionali. 

Per Piketty, come per i fautori di una “ristrutturazione” più democratica e responsabile delle istituzioni europee occorrerebbe partire proprio dal “falso” problema del debito: falso perché così come divulgato è stato solo funzionale all’implementazione di politiche economiche restrittive e dannose. La soluzione proposta è quella –non nuova in realtà, ma mai seriamente affrontata- di mettere in comune anche il debito degli stati membri, in modo da bloccare le speculazioni sui singoli tassi di  interesse che altrimenti continuerebbero all’infinito. Al contempo si creerebbe un nuovo organo comunitario (Piketty lo definisce un “European Chamber”: una Camera Europea) parallelo al Parlamento Europeo e composto da parlamentari nazionali avente il compito di applicare le giuste prerogative monetarie sull’Eurozona. Prerogative per altro perse proprio con l’introduzione dell’Euro. Queste ed altre misure (come l’introduzione di una tassazione comune sulle Imposte di Società dalle cui rendite andare a finanziare il budget europeo) danno il segno di un’alternativa possibile -ed anzi auspicabile- agli anni di crisi economica e di deficit democratico che stiamo ancora vivendo.
Lo spartiacque che ha segnato quest’elezione europea e su cui si confrontano le due “visioni” sul futuro dell’Unione è proprio questo: da un lato, la “vecchia Europa” del trattato di stabilità, del direttorio della Germania e della “Troika”. Dall’altro un modello di tipo keynesiano, che punta sullo sviluppo e sulla crescita e che si riconosce in una visione federalista di Europa. I cittadini europei hanno dimostrato, con il loro voto di aver scelto in che direzione andare: ora c’è da sperare che anche i nostri leaders si dimostrino altrettanto perspicaci.